La denominazione, spalmata un po’ artificiosamente su 13 comuni nell’area meridionale della provincia senese, festeggia i dieci anni di esistenza con un apprezzabile “outing” della sua presidente, Donella Vannetti, che ammette le note difficoltà e certi “peccati originali”, ma dà con l’annata 2009 anche incoraggianti segni di risveglio e annuncia un cambio di disciplinare all’insegna del Sangiovese e dei vitigni autoctoni entro la fine del 2010. Riannodati i fili delle vicende socioeconomiche che dettero vita alla sua invenzione, è ora il momento di un non facile rilancio. Che potrebbe partire da un secco cambio di stile e da un ritrovato rapporto qualità/prezzo.
La verità ha sempre un bel suono. E con essa la sincerità.
E’ principalmente di questo che va dato merito a Donella Vannetti, produttrice di San Giovanni d’Asso e presidente “storico” della Doc Orcia. La quale, al momento di celebrare il decimo anniversario della denominazione, non ha attinto alla retorica e tanto meno si è nascosta dietro un dito. Anzi: dimostrando un sorprendente coraggio ha attaccato il suo discorso dicendo: “Questa doc ha un’origine politica. Fu creata dieci anni fa perchè si pensò che questa vasta area depressa, compresa in ben 13 comuni della provincia di Siena, stretta tra territori ad altissima vocazione vitivinicola come il Chianti, Montalcino e Montepulciano, avesse bisogno di un aiuto per rientrare nel circuito di un’agricoltura da reddito di cui, all’epoca, non c’era traccia. Gli ex mezzadri scappavano. Andava tutto in malora. Furono fatte le mappature, si individuarono le aree più adatte e si iniziò l’avventura. Praticamente da zero”. Non ha fatto menzione di improbabili tradizioni, di fumosi documenti trecenteschi, di oscure attestazioni che non c’erano. Lo ha ammesso con onestà.
E se è vero, come qualcuno ha osservato, che gran parte delle doc italiane ha un’origine politica, è comunque raro sentirlo ammettere apertamente. Tantomeno da un presidente.
Ma la Vannetti non si è fermata qui. Ha detto anche che, nata nel 2000 – anno forse del massimo apogeo di quella che poi si sarebbe rivelata la bolla speculativa vinicola per cui oggi il sistema sta pagando un prezzo altissimo – la denominazione nacque fatalmente “sfasata” rispetto ai grandi cicli commerciali e pertanto giunge oggi a questo primo “esame di maturità” degli anni a doppia cifra con prodotti, stili, disciplinari forse inadatti ai tempi correnti. E con una “classe produttrice” non sempre all’altezza. E’ del resto abbastanza singolare che il consorzio di tutela, nato con cento soci, oggi ne abbia solo 38 (di cui 28 imbottigliatori) e annoveri parecchi “buchi” tra le etichette di prestigio, con circa 160mila bottiglie prodotte. Insomma, “dateci una mano”, ha concluso la presidente salutando i giornalisti.
Chapeu, cara Donella. Perchè nel mondo del vino non è facile trovare chi dribbla i trionfalismi, non arrotonda le cifre e disinvoltamente mette in ombra il cattivo, esaltando il buono.
Dobbiamo aggiungere però – e questa è una considerazione nostra – che se l’Orcia doc è una denominazione in evidente difficoltà non tanto nè solo qualitativa, ma come detto sopra di stile enoico, di immagine e di vendite, qualche segnale di ripresa lo si vede. A cominciare dalle proposte di modifica del vecchio disciplinare (redatto all’epoca con idee molto “nineties“: un rosso a base 60% Sangiovese e poi “via libera”, un bianco a base 50% trebbiano e idem e un vinsanto), che dovrebbero essere approvate entro l’anno e riavvicinare la doc al solco del Sangiovese con l’introduzione di tre nuove tipologie: “Orcia Sangiovese” (90% S.G. e 10% a scelta tra Canaiolo Nero, Colorino, Ciliegiolo, Foglia Tonda e Malvasia Nera), “Orcia Sangiovese Riserva” (almeno 30 mesi di invecchiamento, di cui 24 in legno) e “Orcia Rosso Riserva” (almeno 18 mesi di invecchiamento, di cui 12 in legno).
Le degustazioni organizzate ieri (stavolta nel bel Museo della Mezzadria di Buonconvento) per il tradizionale Divin Orcia hanno inoltre dimostrato che da un lato negli uvaggi la fase di adeguamento alle nuove regole è stato, dai produttori più avveduti, cominciato da un pezzo; e che, anche nello stile del vino, l’annata 2009 si stacca nettamente dalle precedenti, privilegiando una freschezza e un uso più modesto del legno irreperibili nei millesimili precedenti. Il risultato, sebbene fra differenze ancora marcatissime – troppo? Sì, ancora troppo, cosa che non giova all’identità della denominazione – tra un’etichetta e l’altra, è una tendenziale ricerca della piacevolezza e della bevibilità, sintomo della chiara inversione di tendenza in corso.
Gli assaggi hanno confermato insomma una denominazione a due e talvolta perfino a tre velocità, con aziende nettamente più avanti di altre nell’assecondare la domanda e il mercato (pensiamo ad esempio a Capitoni, che ha proposto una sfilza di vini sempre coerenti tra loro e comunque all’altezza delle aspettative), altre ancora nel pieno della fase di transizione, ma con un indirizzo stilistico comunque ben chiaro (come ad esempio La Canonica della presidente Vannetti), altre infine alle prese con una crisi di identità che tradisce, probabilmente, scarsa chiarezza di idee e poca percezione della necessità di mantenere, accanto a uno stile aziendale riconoscibile, anche una coerenza al modello proposto dalla doc Orcia.
E’ in questo scenario che si colloca la questione-prezzi, quella sulla quale davvero potrebbe giocarsi il futuro commerciale della denominazione in un momento in cui le carte e le gerarchie si rimescolano.
Proporsi, proprio grazie a un’oculata politica di ricollocamento, non come una sostanziale seconda scelta rispetto alle docg del vicinato, ma come una denominazione con una propria ragione d’essere e una propria fisionomia, sarebbe forse un passo necessario per riconquistare i consumatori.