VIAGGI & PERSONAGGI, di Federico Formignani.
1984: sui fondali del Giglio si scava il relitto di una nave romana del III secolo. Io, bocconi sul molo, spiego ai sub come parlare nel “coso” che gli ho dato per descrivere in diretta radiofonica ciò che vedono.
È l’ottobre del 1984 e le giornate di sole che sto vivendo all’isola del Giglio sono bellissime. L’aria è più pura, più leggera rispetto a quella della piena estate. Il mare, poi, dimenticato l’affollamento estivo, appare come rilassato, accarezzato da brezze appena percettibili e profumate, impregnate di salsedine e degli odori corposi della terra. Fra poco arriveranno le brume novembrine e i freddi più intensi dell’inverno a mortificare una natura che ora regala all’acqua trasparenze incredibili e luminosità diffuse; anche a ragguardevoli profondità. In attesa del momento di “dar voce” a ciò che altri avrebbero scoperto sotto la superficie del tratto di mare antistante il piccolo porto con il faro rosso, assisto alla laboriosa fase dei preparativi per le immersioni subacquee e per le registrazioni radiofoniche in diretta dai fondali che io e il collega Mino Müller, per conto della Radio Svizzera di Lingua Italiana, dobbiamo compiere.
Ci raggiunge sul molo, durante le operazioni di scarico dei materiali che serviranno per le immersioni, l’archeologa Paola Rendini che dà qualche informazione su ciò che si farà. Saranno quaranta giorni di campagna di scavo che vedranno la quadrettatura del fondale per mezzo di una maglia metallica: i riquadri avranno una superficie di circa quattro metri per sei; seguirà poi il lavoro con la sorbona (aspirazione di terra e fango) per la pulizia e il recupero dei reperti, quindi la numerazione delle anfore; grosso modo una settantina di anfore grandi che contenevano il garum, una salsa di pesce molto forte, vera delizia per il palato dei Romani; le poche anfore sin qui recuperate sono contrassegnate da un sigillo di fabbricazione tunisino. A campagna conclusa, il materiale di scavo finirà per essere esposto qui al Giglio e il relitto – quello che resta dello stesso – verrà coperto da teloni di plastica e nascosto sotto sacchi di sabbia e pietre.
Precisa e chirurgica, quasi, l’esposizione dell’archeologa; istintivamente penso al grande lavoro che dovrà essere affrontato per arrivare alla fine a ricoprire, quindi nascondere,il tutto. Il Giglio, prosegue Paola, non è l’unico luogo nel quale si sia verificato un naufragio di navi romane; ad esempio il promontorio dell’Argentario, punto di riferimento essenziale della costa per chi arriva dal mare, è anch’esso circondato da reperti e relitti lungo quasi tutto il suo perimetro: da Punta Ciana a Punta Bove, dall’Argentarola a Cala Grande, alla Cacciarella.
Le Formiche di Grosseto, i tre scogli davanti a Bocca d’Ombrone, sono anch’esse state testimoni di numerosi affondamenti, sia etruschi che romani e più tardi, anche di navi saracene. Ma anche al Giglio, come a Giannutri, sono presenti altri reperti significativi: alle Scole, a Cala Cupae, alla Secca dei Pinocchi, in prossimità del Campese dove nel 1961, agli albori dell’esplorazione subacquea, sono state recuperate alcune anfore da due sommozzatori tedeschi.
C’è un po’ di tutto sotto il mare: sciabecchi, imbarcazioni d’origine araba con tre alberi a vela latina; tartane, velieri mediterranei da carico e da pesca e brigantini, velieri maneggevoli a vele quadre; naturalmente, anche navigli molto più moderni.
La nave da raggiungere, conclude l’archeologa, è una grande “oneraria”, un mercantile, lunga una trentina di metri e larga otto, di epoca imperiale (terzo secolo dopo Cristo). Veniva da un porto africano ed era carica di anfore piene di olio e di garum. La nave era ormeggiata al porto quando un’improvvisa tempesta ha strappato gli ormeggi e l’ha trascinata alla deriva per una settantina di metri; quindi il naufragio e la caduta verso i quaranta metri del fondale sabbioso. L’inclinazione finale su un lato e la sabbia hanno permesso di preservare la struttura in legno del naviglio e di proteggere le anfore; il legname della nave rimasto allo scoperto è stato in seguito mangiato dalle voraci teredini marine, dei vermi che si nutrono di legno.
Finalmente inizia il recupero sottomarino. Io e Mino Müller – pancia a terra sul molo – chiediamo a Mario Gabrieli, il capo sub della piccola spedizione archeologica, se è pronto per provare a parlare nell’oggetto che gli mettiamo in mano. Il “coso” è una specie di piccolo sacchetto arancione di gomma floscia e delicata che, una volta sul fondo del mare – gonfiato dal fiato e dalle parole del sub – trasmetterà per vibrazioni le voci e quindi le impressioni di chi lo usa, in un microfono speciale di profondità che abbiamo ancorato a una tavoletta di cemento, lasciandolo affondare dolcemente. Il secondo “coso” che riceverà voci e rumori è un tozzo tubo tronco (rivestito di materiale plastico nero) lungo una quarantina di centimetri e largo dieci. Potrebbe contenere qualunque oggetto, tanto è banale. In tale circostanza contiene invece un microfono ultrasensibile che è stato convenientemente isolato per poter funzionare a una profondità di 70 metri e oltre. A quei livelli l’acqua del mare schiaccia con notevole forza tutto ciò che la percorre: uomini come oggetti. Gli uomini sanno amministrarsi, gli oggetti no.
Collegato alla superficie mediante due cavi – uno d’acciaio per il peso che lo ancora al fondale e l’altro di gomma per trasmettere i suoni al registratore Nagra che sta sul molo – il microfono speciale, collaudato da Mino in precedenza nelle acque scure del lago di Lugano, comincia a lavorare.
“Cosa debbo dire una volta arrivato sul fondo?” ,chiede il sub Mario; “Quello che vedi, quello che fai“.
Ok di risposta e via, giù dal pontile, nelle acque già un po’ fredde del Giglio, ma limpidissime.
Occorrono un paio di minuti prima che la telecamera installata sul molo inquadri le figure nere dei due sub che si muovono lentamente sopra l’area delimitata per i rilievi subacquei. Ecco la voce di Mario, finalmente. Lo vediamo osservare e raccontare per il nostro registratore i tesori della nave oneraria romana. Dice quello che sicuramente interesserà gli ascoltatori del documentario in produzione e cioè che da mille e settecento anni la nave oneraria giace a quella profondità, con ciò che resta della struttura lignea originale, mentre il prodigioso carico di anfore africane è sparpagliato sul fondale; poi descrive l’area che è stata mappata per i rilievi fotogrammetrici. Subito dopo, questo toscanaccio dai baffoni spioventi, continua l’ispezione del fondale e la descrizione assume quasi i toni professionali di una telecronaca: “…si avvistano una sessantina di anfore, già con tutto il collo e la pancia fuori dalla sabbia”. Un po’ di pulizie casalinghe per aspirare la sabbia (sorbonare) coll’apposito tubo, e quindi il rilievo scientifico; è arrivato il momento della risalita
. Una volta sul molo, Mario ci informa che deve “riposare” un po’ per smaltire buona parte dell’azoto accumulato nel sangue, recuperando così una situazione psicofisica leggermente compromessa. Ma subito dopo, a beneficio del servizio che stiamo preparando, arricchisce la sua cronaca con impressioni e sensazioni sul lavoro che svolge.
Alla fine (siamo tutti un po’ bambini!) si diverte un mondo nel riascoltare in cuffia ciò che poco prima ci ha “raccontato” dal fondo del mare.