Retorica a parte, alla quale negli ultimi vent’anni i guru del marketing territoriale hanno attinto a piene mani, la questione del reale rapporto tra sviluppo dell’economia vinicola e tutela del paesaggio (rurale e non) resta viva e controversa. Fino a che punto – e, soprattutto, come e in che arco di tempo – un vigneto “è” o “fa” paesaggio? Quanto l’imporsi della (quasi) monocoltura della vite, fenomeno endemico ovunque si producano vini di successo, è da considerarsi “a prescindere” un arricchimento del patrimonio paesaggistico? A un convegno svoltosi recentemente a Castagneto Carducci (LI) lanciati i primi germi di un dibattito ancora tutto da sviluppare.

Usciamo subito dai luoghi comuni e dalle visioni bucoliche e andiamo al punto: il vigneto è un elemento qualificante del paesaggio?
Sfido chiunque, di getto, a rispondere no. E’ ovvio che, detto così in generale, la risposta sia sì.
Ma cominciamo a stringere il cerchio.
Qualunque tipo di vigneto è qualificante? Lo è in qualunque luogo e al posto di qualunque cosa esso venga impiantato? E ancora: c’è (paesaggisticamente parlando) differenza tra vigneto e vigneto o, a maggior ragione, tra le diverse varietà di vitigno che possono costituire un vigneto?
Andando ancora oltre: quanto tempo impiega un paesaggio “naturale” o rurale più o meno stabilizzato (da secoli o da decenni) a “metabolizzare” e a sussumere al suo interno un nuovo vigneto, considerando anche che, essendo la vigna un impianto comunque destinato a produrre beni e quindi reddito (costituendo insomma un investimento), essa sarà destinata a essere realizzata nel più economico dei modi? E probabilmente ad espandersi a discapito di altri elementi già presenti in quel paesaggio, con il rischio di trasformarlo in monocoltura?
Inoltre: aldilà dell’effetto estetico, fino a che punto si è consapevoli di quanto sia geologicamente, urbanisticamente, ecologicamente “impattante” impiantare un vigneto? Pensiamo agli scassi profondi che la sua realizzazione richiede, alle questioni idrauliche e idrogeologiche, alla costruzione di strade e vie di accesso che essa comporta, per non parlare della costruzione o l’ampliamento di cantine.
E non mi riferisco tanto (prevenendo così facili e giuste eccezioni) alla trasformazione in vigneto di un terreno già destinato ad altre colture agricole (ciò in cui, in sostanza, consiste in una direzione e nell’altra la storia del paesaggio agrario), ma alla realizzazione di superfici vitate su aree precedentemente vergini da coltivazioni.
Tutte questioni che in teoria nulla tolgono, è evidente, all’intrinseca bontà (anche dal punto di vista estetico-paesaggistico) del concetto di vigneto, ma che spesso si tende forse a sottovalutare, a ignorare, a aggirare.
L’occasione per parlarne (rectius: per cominciare a parlarne) l’ha offerta il convegno “Architettura dei paesaggi del Vermentino” che si è tenuto lo scorso weekend a Marina di Castagneto Carducci (LI), nell’ambito della rassegna “Vermentino di terra e di mare”, kermesse organizzata dal dinamico sindaco della cittadina toscana, Fabio Tinti, nell’ambito del progetto europeo Ver.tour.mer per la valorizzazione delle produzioni delle quattro storiche aree di coltivazione del vitigno: Castagneto Carducci, Castelnuovo Magra (SP), Stant’Anna Arresi (CI) e Alta Corsica.
Accanto alle degustazioni di Vermentino del comprensorio bolgherese (condotte dal vicepresidente regionale AIS Massimo Castellani con la delegata provinciale Paola Rastelli e finalizzate a dimostrare l’estrema duttilità del vitigno nell’adattarsi ai terroir di aree anche molto circoscritte), l’architetto del paesaggio Andrea Meli ha presentato la relazione intermedia del lavoro di ricerca che sta svolgendo da alcuni mesi (e che si concluderà a fine anno) nei territori interessati dal citato progetto comunitario: “Architettura dei paesaggi del Vermentino”, appunto. “L’obbiettivo – ha spiegato l’architetto fiorentino – è studiare il rapporto generale tra vino e paesaggio per arrivare poi alla definizione di un abaco delle soluzioni ricorrenti e riconoscibili legate alla coltivazione del Vermentino sebbene in contesti territoriali e paesistici differenti”.
Il lavoro è solo all’inizio, ma gli spunti non mancano. Ne ha evidenziati alcuni Marzio Favini, il sindaco di Castelnuovo Magra (comune capofila del progetto Ver.tour.mer), spiegando come, in determinati contesti di crescita dell’economia vinicola e quindi in una condizione di forti prospettive di sviluppo, l’investimento in vigneti possa rappresentare addirittura un’alternativa a quello della lottizzazione immobiliare: “Conosco proprietari che si lamentano dell’edificabilità dei loro terreni, perchè ciò gli impedisce di realizzarci delle vigne”.
Casi estremi? Lacerti di un’economia vinicola da tempo instradata sulla via del tramonto, se non già “postvinicola”?
Può darsi. Ma l’idea che il vigneto possa porsi – mi si passi l’espressione – come “medio proporzionale paesaggistico” tra gli estremi del paesaggio naturale e del paesaggio urbano ha un suo fascino. Neppure privo di inquietudini.
Sarebbe bello se intorno al punto – ora che il tema del landscape è di grande attualità – di sviluppasse un dibattito un po’ meno convenzionale del solito.
Dalla tribuna di Castagneto il mio piccolo sasso l’ho lanciato…