L’Amarone è appena passato, domani comincia il fuoco di fila toscano (sabato la “primanteprima” fiorentina delle denominazioni più piccole, poi Chianti, poi Chianti Classico, poi Vernaccia di San Gimignano, poi Nobile di Montepulciano, infine Brunello di Montalcino) e dopo ancora, salvo miei errori, quello del Sagrantino di Montefalco, per poi salire a nord.

Dell’ascesa e della caduta della formula, nata millantanni fa per proporre a stampa e addetti ai lavori le nuove annate dei vini italiani, si è già scritto tutto e il contrario di tutto. Compreso che, come è vero, da tempo essa mostra la corda e spesso genera ormai eventi elefantiaci, i quali di anteprima hanno ormai poco, costano molto e hanno un’utilità dubbia, se non altro in rapporto alle spese e agli sforzi organizzativi che comportano.

Di ciò sono consapevoli tutti, produttori e giornalisti.

E tuttavia non sempre volentieri ci si sottrae al rito, sebbene sia divenuto progressivamente più mondano che tecnico. Le anteprime hanno oggi il sapore di una giovevole rimpatriata, ottima per mettere a fuoco settori, aziende, zone e sottozone nonchè tipologie di vino, salutare colleghi, incontrare vignaioli, programmare incontri e assaggi ulteriori, abbozzare progetti.

La sensazione è però che le anteprime tradizionali abbiano comunque i giorni contati e che, presto o tardi, tutte finiranno per diventare ciò che alcune già sono: eventi per il pubblico, cioè finalizzati alla promozione dal basso del vino verso la massa sempre più grande di persone che il marketing ha soprannominato “wine lovers“. Ovverosia l’anello di congiunzione tra la classe dei comuni consumatori e quella dei consumatori evoluti, ormai così numerosa da fare “numeri” interessanti pure in termini espressamente commerciali, grazie alla saldatura, avvenuta da tempo, tra mercati contigui: di qua il consumo domestico, di là quello nei pubblici esercizi e nel mezzo quello misto del bere fuori pasto tra aperitivi, happy hour, party, feste, etc.

A fare da mastice, l’abitudine globalizzata di mangiare (e pertanto bere) in ogni momento della giornata, col business che essa genera.

Giornalisticamente parlando, il fenomeno è interessante ma già indagato.

Il problema, casomai, è che per indagarlo ulteriormente occorre essere giornalisti che si occupano di costume o di economia, quindi per gli specialisti del vino sembra esserci sempre meno spazio o motivo di interesse.

Con un accenno, anzi nemmeno tanto accenno, alla preoccupante tendenza a un’inversione dei ruoli: il cronista spesso non c’è per far cronaca, ma per fare da testimonial, più o meno involontario, all’evento criptomondano, funzione una volta affidata a certe ragazze piuttosto attraenti e appariscenti.

Giornalisti girabicchieri e possibilmente in minigonna cercansi.