di URANO CUPISTI
1982: blocchi, muri e cortine ancora saldamente in piedi. L’Albania, il fortino marxista-leninista quasi inespugnabile di Enver Hoxha. E chi riusciva a entrare, con la Sigurimi rischiava parecchio…
Una fredda domenica mattina del gennaio del 1982 me ne stavo seduto con gli occhi chiusi su una panchina del lungomare di Lido di Camaiore per godermi i deboli raggi solari in pieno viso, quando sentii chiamarmi da una voce semidimenticata. Lo guardai, ma stentai a riconoscerlo. “Pasquale – esclamai – che ci fai da queste parti?“.
Pasquale era un vecchio conoscente di università, calabrese, all’epoca ufficialmente emigrato a Pisa per studiare (si fa per dire), ma attivista di prima linea del movimento studentesco. Rappresentava quelli allora definiti katanga, ovvero gli addetti al servizio d’ordine durante scioperi e manifestazioni. Convinto marxista-leninista, aveva inutilmente cercato di persuadermi ad abbandonare i miei ideali liberali per confluire nell’utopistica visione del “sol dell’avvenir”. Dopo la mia laurea era svanito nel nulla.
Ed ora rieccolo di fronte a me a raccontarmi tutte le sue peripezie, fino all’incarico di rappresentante di un circolo culturale italo-albanese.
Da lì a trovarmi dopo tre mesi sul molo di Bari ad imbarcarmi su di un traghetto iugoslavo con destinazione il porto di Bar, nel Montenegro, fu il susseguirsi di strane, singolari, insolite situazioni volute da entrambi. Da un lato il nuovo tentativo di Pasquale di portarmi ideologicamente dalla sua parte e, dall’altro, il mio desiderio di vivere un’avventura unica nel suo genere, come in effetti fu.
Occorre dire che, allora, l’Albania era un paese praticamente sconosciuto ai più. Impenetrabile. Frontiere chiuse e con queste aeroporti e porti, nessuna collaborazione o scambio, nessuna possibilità di comunicazione telefonica se non quella autorizzata e controllata dal regime. Nessuno ne parlava, era come se non esistesse. Nei libri le uniche notizie risalivano al periodo tra il protettorato italiano dopo la prima guerra mondiale e l’annessione, durata dal 1939 al 1944. Poi il silenzio assoluto. Un silenzio coinciso coi cinquant’anni di potere marxista-leninista legato alla vita del “capo” indiscusso e indiscutibile del paese: Henver Hoxha. Nessuna disponibilità di cartine stradali aggiornate se non “cimeli” fascisti datati 1940.
Durante la traversata notturna approfondii la conoscenza dei compagni di viaggio. “Compagni” in tutti i sensi, nove uomini e sei donne. Membri del circolo culturale, si capisce. Vestiti in modo informale ma niente jeans nè calzature sportive, forse ritenuti troppo occidentali. L’abbigliamento femminile era limitato a gonne abbondantemente sotto il ginocchio, niente scarpe con i tacchi nè calze di nylon. Del resto questo dress code era stato ben specificato nelle istruzioni ricevute prima della partenza.
Ad attenderci a Bar, al mattino, un bus jugoslavo che aveva il compito di portarci fino alla cittadina di Vjeternik, sperduto punto di confine vicino al Kossovo, distante 300 Km circa. E da lì avremmo dovuto raggiungere Scutari con strade interne per altri 150 Km.
Per meglio capire la situazione di allora basta guardare, oggi, una semplice cartina stradale: il tragitto Bar-Scutari è di appena 50 Km. Noi ne percorremmo quasi il decuplo impiegando 10 ore, compreso uno stop obbligato di due ore alla frontiera.
Giunti all’ultimo avamposto jugoslavo, l’ufficiale in servizio ci chiese il motivo delle visita in Albània (accento d’obbligo per la giusta pronuncia). Dopo la risposta di Pasquale, con un sorriso sarcastico e per niente dissimulato, ci disse: “Auguri”. Non volle nemmeno i passaporti. “Tanto ci pensano gli albanesi”, dette ad intendere.
Ben 500 metri separavano i due confini. La terra di nessuno, una strada sterrata con limitatori chiodati qua e là, fossati per impedire accelerazioni ai pochi mezzi in transito (in due ore non ne vedemmo alcuno), l’attraversammo a piedi, trascinando i bagagli mentre una pioggerellina fastidiosa aumentava i disagi. Poi, finalmente, dietro l’ultima curva un grande cartello sormontato da una gigantesca aquila nera bicipite su sfondo rosso ad annunciarci che entravamo nella Republika Shqipëria.
Ovviamente ci aspettavano. Saluto con il pugno chiuso d’ordinanza, thè caldo per tutti, musiche militari e inizio del controllo bagagli. Per i passaporti facemmo molto presto: li requisirono e li ritrovammo solo il giorno della partenza, con tutti i timbri del caso. Tanto avremmo dovuto ripassare da lì: era l’unico varco aperto di tutto il paese.
Valigie, borse, borsine a mano furono rovesciati uno ad uno per un’ispezione che dire minuziosa è un eufemismo. Le sei donne “sparirono” per un controllo fatto dalle doganiere albanesi. Noi fummo controllati alla militare, ovvero in mutande. Il tutto con il continuo ripetere in italiano “Scusateci, scusateci, scusateci”. Requisirono tutti i giornali, riviste, gli indumenti considerati borghesi. Trattamento particolare per i pacchi di cotone e gli assorbenti igienici: furono letteralmente sbriciolati, pensando a chissà che di nascosto.
Finalmente salimmo su di un Bus Menarini nuovo di zecca da 44 posti. Insieme a noi, oltre l’autista, tre funzionari del Partito del Lavoro, di cui due nella funzione di sorveglianti e uno, decisamente con grado più elevato, come presenza della polizia segreta, la Sigurimi. Tutti parlanti un perfetto italiano.
Il viaggio fino a Scutari fu allucinante. Continuavamo ad incontrare bunker di cemento armato seminascosti nella vegetazione. Ci fu detto che erano difese del popolo contro improvvisi ed imminenti tentativi di invasione dei “traditori titini” affiancati dagli imperialisti italiani ed americani, favoriti dalla politica espansionistica religiosa del Vaticano. Benvenuti in Albània.
Finalmente arrivammo a destinazione. Era sera. Città deserta, poche luci accese. “Dopo cena, se volete fare due passi, è permesso“, ci disse l’agente della Sigurimi. “E dove andiamo? Meglio stare in hotel“, fu il pensiero di tutti.
Rimanemmo due notti.
Il primo giorno lo passammo a Scutari, una sorta di città modello nella visione di una società comunista. Solo mezzi pubblici, unica proprietà ammessa la bicicletta, cultura atea, trasformazione di tutti luoghi di culto (moschee, chiese cattoliche, bizantine, sinagoghe) vuoi in sedi del Partito del Lavoro, vuoi in Case del Popolo o ancor peggio in palestre, come la cattedrale cattolica. Altro non fu permesso di vedere: niente lago, niente Castello di Rozafa. Erano visite ritenute superflue nella logica di un viaggio dedito principalmente, o per meglio dire esclusivamente, agli incontri e agli scambi “culturali”.
Il secondo giorno fu dedicato a Kruja. Ricordo questa cittadina in una giornata di pieno sole primaverile. Risultò essere una visita consentita per essere stata il luogo natale dell’unico eroe nazionale riconosciuto tale anche dal regime: Giorgio Castriota Scanderbeg. Vissuto nel tardo medioevo, fu il condottiero albanese che combattè “l’oppressore turco-ottomana”. Il Castello che sovrasta la città, poi Museo Nazionale della Resistenza (ai turchi) fu per noi l’unica attrazione turistica ammessa. “Asgjë moschea, asgjë vecchio bazaar”. Asgjë, in albanese, vuol dire niente.
Poi andammo a Durazzo. L’Hotel Rex, sul lungomare, una struttura in stile fascista della fine degli anni Trenta, fu la nostra base operativa per le successive visite del centro-sud del paese. Della città mi è rimasto poco nella memoria, perchè si partiva al mattino presto e si tornava la sera tardi. Ma se monumenti e musei solitamente sono tra le motivazioni principali di un viaggio, nell’Albania comunista non la pensavano allo stesso modo.
Furono inutili i tentativi di visitare il porto, le rovine del foro bizantino datato tra il 600 e l”800 d.C., la Fatih Mosque risalente al ‘500, l’anfiteatro romano, la Villa Reale fatta costruire dal Re Zog I, che regnò in Albania dal 1928 al 1939. Quando proposi di darci un’occhiata, mi fu chiesto: “Perché interessa visitare il palazzo di rappresentanza del Partito del Lavoro?“. Chiesi scusa: avevo capito tutto.
E venne il fatidico giorno in cui rischiai di essere trattenuto in Albania come sovversivo per aver diffuso false notizie e aver inneggiato ai valori dell’imperialismo americano.
Stavamo percorrendo il tratto stradale da Scutari a Durazzo, disseminato anch’esso di bunker a difesa degli attacchi via mare degli italiani. Nel Menarini Bus il mangianastri diffondeva le solite marce militari cantate dalla gioventù albanese quando una musica soave, impalpabile, dolce e aggraziata introdotta dai soprani accompagnati dall’oboe e dall’arpa mi svegliò dal torpore. Richiamai l’attenzione dei miei compagni gridando: “Ragazzi, ma questa è la musica di Kismet (un musical americano conosciuto in Italia come “Uno straniero tra gli angeli”) di Bob Wright, cantata da Vic Damone!“.
Fu un grave errore.
L’agente del Sigurimi si alzò dal suo sedile e con fare minaccioso mi ricordò che “Quanto tu stai ascoltando altro non è che la “Danza delle ragazze” tratta da Danze Polovesiane dell’opera “Il Principe Igor” del compositore russo Alexander Borodin, considerato dai compagni albanesi come un genio pre-marxista, attivista del movimento di massa nell’epoca delle riforme della metà dell’Ottocento. Gli americani hanno rubato e fatto loro questa melodia!“. Le marce militari ricominciarono ad invadere il bus. Concitata discussione tra Pasquale e l’agente sul perché della mia presenza nel gruppo vista la mia manifesta, secondo il rappresentante del Sigurimi, posizione non consona ai dettami marxisti-leninisti richiesti. Evito di raccontare quanto fu detto tra il sottoscritto e Pasquale. Comunque decisi di scendere ai più miti consigli e a più sobrie esclamazioni, onde evitare conseguenze “incresciose”.
Elbasan richiese una deviazione di molti chilometri solo per ammirare un impianto metallurgico costruito grazie agli aiuti di stato dei compagni cinesi. Ci fu ricordato che l’alleanza con Mao aveva sostituito quella con i sovietici “revisionisti e traditori”.
D’obbligo ammirare all’ingresso dell’impianto il megapannello con le foto dei compagni-operai che avevano superato i target di lavoro loro assegnati. A seguire, l’inevitabile incontro con una delegazione con tanto di fazzoletti rossi intorno al collo e successiva partecipazione al convivio nella mega mensa. Noi ospiti fummo messi al tavolo dei compagni-dirigenti al centro del locale, su di un palco. Echeggiarono marce militari e discorsi di fratellanza. Ovvio che toccò a Pasquale ringraziarli per l’ospitalità.
Berat fu la città che valse da sola la pena dell’intero viaggio in Albania. Un momento di scoperta e di fascino, con le sue caratteristiche costruzioni fatte di muri bianchi e tegole color mattone. Mi domando ancora adesso come sia riuscita a sopravvivere alla dura politica di rinnovamento e ricostruzione del dittatore Enver Hoxha, il quale era solito distruggere tutti gli edifici antichi per poi ricostruirne di nuovi in stile regime. Forse fu commosso anche lui da tanta bellezza?
Antico insediamento illirico, passò poi sotto la dominazione ottomana, bulgara, serba e turca. Evidenti le due diverse anime religiose, l’una prettamente cristiana e l’altra musulmana, l’emblema di una pacifica commistione culturale mai sopita, con la Moschea degli Scapoli, l’ottomana Moschea del Re, la Moschea di Piombo, le piccole case tutte arroccate l’una sull’altra, che caratterizzano l’intera architettura della zona, la Chiesa di San Spiridione, la piccola Chiesa di San Tommaso ed infine il Castello di Berat, fortezza ottomana arroccata su di un’altura che domina la cittadina. Da qui abbiamo godemmo di una meravigliosa veduta che spaziava tra i quartieri di Berat arrivando in lontananza ai verdi e selvaggi dintorni. Roba da togliere il fiato.
“Come vedete, il nostro compagno-comandante ha voluto lasciare ai posteri le tradizioni culturali dell’Albania solo ed unicamente come ricordi e testimonianze di supremazie, guerre e disparità“, chiosò il nostro accompagnatore-guardiano. I miei compagni di viaggio annuirono, mentre io respiravo finalmente un po’ di storia e di paesaggio vero.
Infine arrivammo ad Argirocastro, paesino incastonato tra le montagne del sud dell’Albania, splendido borgo storico che avrebbe avuto miglior attenzione da parte nostra se gli impegni “politico culturali” che incombevano non ci avessero impedito la visita. Solo la casa-museo dove nacque lui, la forza suprema del paese, Henver Hoxha, fu infatti meta delle nostre escursioni. E meno male che, trovandosi cima al paese, per raggiungerla a piedi fosse necessario attraversare il borgo intero, tra vicoli, casette tipiche dai tetti in pietra e i muri di un bianco “ellenico” (la Grecia è solo a 40 Km in linea d’aria).
Sul resto abbondarono i “niente”: niente casa ottomana Skenduli, niente bazaar cittadino nè caffè turco. Niente Castello, tabù anche perché utilizzato per la custodia dei prigionieri politici. Niente Moschea Bazaar, che sapevamo utilizzata come scuola di formazione per gli acrobati dei circhi, dato che l’altezza dei soffitti interni permetteva di appendervi comodamente i trapezi. Niente di tutto questo perché dovevamo rientrare a Durazzo (a circa 200 km, tempo stimato 5 ore), per essere puntuali alla serata di gala alla presenza di alti funzionari del Partito del Lavoro venuti appositamente per noi da Tirana. La serata in cui Pasquale si esaltò al punto da indurlo a esclamare: “Vengo a vivere qui, nella repubblica non più delle aquile ma dei compagni albanesi“.
Con quell’evento terminò la visita in Albania: Tirana rimase off-limits perchè ospitava, spiegarono, il Congresso della Gioventù. Il giorno dopo raggiungemmo il posto di confine da dove eravamo entrati. Ritrovammo tutto quanto sequestrato all’arrivo, ben custodito. E con un omaggio personale del leader Enver: la “Storia del Partito del Lavoro d’Albania” tradotto in Italiano. Una specie di “Mein Kampf“ in versione marxista-leninista.
Arrivati a Bari ci salutammo. I miei compagni, di viaggio felici e contenti dell’esperienza vissuta, cantavano l’inno dei lavoratori albanesi che ormai conoscevano a memoria dopo le innumerevoli esecuzioni godute lungo i trasferimenti. Pasquale mi salutò con una pacca sulla spalla, a ricordarmi lo scampato pericolo e tre baci alla Stalin.
Non l’ho più incontrato.