di URANO CUPISTI
Sulle grandi navi, i capitani sono due: uno sta in coperta al timone e uno sottocoperta a occuparsi dei motori. Hanno lo stesso grado. L’autore di questo articolo (qui) è figlio del secondo, il “Direttore di macchina”. Da bambino, negli anni ’50, ha fatto col babbo viaggi straordinari in luoghi straordinari.
Oggi si direbbe il DNA non mente.
Qualcuno, amante dei viaggi d’avventura, forse sosterrebbe come unica verità che il mio avere avuto un padre lupo di mare sia da considerare l’essere un uomo fortunato fin dalla nascita. Fortunato per essere figlio e discendente di una famiglia di “marinai”. Direi meglio di gente di mare. Sì perché il termine marinaio è molto generico.
“Il marinaio è un membro dell’equipaggio di una nave”.
E fino qui niente da eccepire. Poi, a seguire, tutte le qualifiche che costituiscono di fatto l’equipaggio.
A partire dalla bassa forza costituita dai mozzi o ragazzi di coperta, i marinai semplici, i marinai scelti, per passare ai sottoufficiali con i nostromi di prima e seconda classe, proseguire con gli ufficiali partendo dagli allievi ufficiali, oggi li chiameremmo praticanti di mare o stagisti, gli ufficiali di terza, seconda e prima classe per arrivare al Comandante, responsabile della nave. Grado militare: Capitano.
Stesse qualifiche per quella parte di equipaggio al quale è riservata la responsabilità della forza detta di “propulsione” ovvero dei “motori, delle macchine”. I gradi sono gli stessi ma con denominazioni differenti. Fochisti, Capi di macchina, sottoufficiali, allievi di macchina, ufficiali di macchina fino al Capo Macchina detto anche Capo Macchinista o Direttore di Macchina. Oggi la qualifica è stata aggiornata con il termine inglese di Chief Engineer. Grado militare: Capitano.
Mio padre era un Direttore di Macchina. Diplomatosi nei primi anni Trenta all’Istituto Nautico di Livorno fece la gavetta nella Regia Marina Militare e solo nel dopoguerra arrivò al massimo grado di Direttore di Macchina con responsabilità di grandi navi sia da “carico” che “passeggeri”. Alcuni nomi? Le carboniere Deneb e Butterfly, navi delle Linee Messina, le “passeggere” Andrea Doria, Cristoforo Colombo, Eugenio Costa ecc…
Ed io, ultimo rampollo della famiglia, avviato a studi di ben altro indirizzo.
La gente di mare soffre la lontananza della famiglia, esclamava in ogni momento mio padre.
Il mio destino era segnato, ma il DNA non mente.
Avevo otto anni, frequentavo la IV elementare anticipata causa la data di nascita.
“Se fai il bravo e passi a scuola, come premio a settembre ti porto in mare con me, in un bel viaggio”.
Viaggiare con mio padre, solcare quei mari che avevano segnato la fantasia di adolescente. Le narrazioni serali di mia madre (la televisione ancora non c’era) ad accompagnarmi nei sogni di bambino che cresceva.
Marsiglia con il porto vecchio e l’isola dell’Arcipelago delle Frioul antistante l’omonimo golfo dove c’è l’imponente, storico Castello d’If ricordato ne “Il Conte di Montecristo“. Tunisi, con le sue oasi poco distanti e i resti di Cartagine. Tripoli, quella di Tripoli bel suol d’amore. Benghazi, più araba, meno occidentale e Licata con le zolfare e la vicina Valle dei Templi di Agrigento.
A parte Tripoli e Benghazi, oggi off limits, per il resto sembrerebbe una classica mini-crociera nel Mediterraneo uscita da qualche catalogo patinato per una vacanza di lusso, con casinò incluso, come si suol dire, “per staccare la spina”.
Ma immaginatevi nel 1954 agli occhi di un bambino di appena otto anni, i significati storici, culturali, formativi e di conoscenza causati da un viaggio simile a bordo di un mercantile dove respiravi l’andar per mare, a lavorare.
“Il viaggiatore è colui che cerca“. Lo annotai al ritorno, a conclusione di quella ricerca scolastica disposta dal mio maestro elementare dal titolo scontato: scrivi le tue impressioni sul viaggio con tuo padre. Un’aggiunta ai compiti estivi vista la circostanza ed eccezionalità del caso.
Durante l’anno scolastico, prima della partenza, in classe non si faceva altro che parlare di questo viaggio. Durante le ore di storia e geografia gli approfondimenti riguardavano i luoghi che di lì a poco avrei visto. La lettura del Conte di Montecristo di Alessandro Dumas Padre, le guerre puniche con l’eroica resistenza di Cartagine al crescente dominio dell’antica Roma, la storia più recente del colonialismo italiano in terra d’Africa dei primi del Novecento, la Valle dei Templi di Agrigento e la loro sontuosità, splendore e bellezza, dei resti archeologici della Magna Grecia.
E al ritorno non fu che narrare il mistero del Castello d’If, la raccolta dei datteri nelle oasi tunisine, il mio “calpestare” i resti della grande Cartagine, il racconto del percorrere il bellissimo lungomare fiorito di Tripoli e la visita del souk di Benghazi, avvenuta sotto mentite spoglie accompagnato dallo spedizioniere referente della Compagnia di Navigazione in quel porto. Fui costretto a spacciarmi da giovane turista inglese, pronunciando solo yes, no, maybe, how much?, cercando comunque di non parlare italiano. Benghazi, da sempre ostile alla presenza italiana, non potei fare a meno di visitarla, ascoltare i suoni disordinati, arruffati dei clacson delle auto, ascoltare i muezzin dall’alto dei minareti invitare i fedeli alla preghiera, osservare lo stendere dei tappetini di fortuna e l’inginocchiarsi rivolti verso La Mecca con i suoni vocali a pronunciare le litanie coraniche. E quei profumi di spezie, capre da macellare e macellate in una mescolanza a volte amalgama di olezzi della loro vita quotidiana. Quella Libia, Tripolitania e Cirenaica ancora governata dal Re Idris. Mu’ammar Gheddafi allora viveva ancora nelle tende a sud di Sirte.
Senza dimenticare l’esperienza delle zolfare con i muli resi ciechi dalla polvere di zolfo che in carovana entravano e uscivano dalle cave trainanti carri, prima vuoti poi pieni di sulphur e avviarsi, lungo la strada conosciuta negli anni, verso il porto di Licata. E il racconto della magnificenza della Valle dei Templi di Agrigento ancora lontana dall’urbanizzazione selvaggia che da lì a poco avrebbe contaminato tanto splendore.
Non avevo ancora 8 anni compiuti, nel dicembre del 1953. Quel Natale prima della partenza fu un Natale particolare.
A scuola preparammo la “letterina” da mettere, ognuno di noi, sotto il piatto del proprio pappà (obbligatoriamente con tre p, segno indelebile dell’appartenenza ad una terra d’incontri di diverse etnie). Nel mio caso sotto il piatto di mio nonno (il mi pappà non sarebbe stato presente per quel Natale, perchè “in mare”, in navigazione, lontano).
La mia letterina fu diversa dalle altre. Oltre a contenere le buone intenzioni ad essere buono e bravo, includeva la richiesta desiderata, ambita da trasmettere a Babbo Natale. Non pistole da cowboy con i cappelletti, arco con frecce da pellirossa o trenini elettrici. Il sospirato regalo consisteva nell’ultima edizione dell’Atlante Geografico De Agostini per preparare quel sogno che da lì a pochi mesi sarebbe divenuto realtà. Il DNA non mente.
Avevo 8 anni e qualche mese quando mi imbarcai a Genova sulla M/N Nicoletta delle Linee Messina, di 5.000 tonnellate. Salii la scaletta d’imbarco insieme a mio padre che vestiva l’alta uniforme blu di Direttore di Macchina, con l’elica sul berretto bianco (l’appartenenza al reparto macchine) e come distintivo di grado i due galloni di diversa altezza con il terzo adagiato e cucito a guisa di volta di bitta sulle maniche.
Iniziarono quel giorno le mie avventure “per mare”; avventure in varie parti del mondo in viaggio con mio padre durate più di tre lustri.
Vivere dal vivo il mare. Imparare a fare i calcoli di potenza del motore, vedere sfilare con i verricelli i pistoni, cambiare le fasce ai cilindri, rettificare questo o quell’elemento, revisionare i gruppi elettrogeni.
Ma anche il lavoro in “coperta” con il controllo delle stive, della merce in carico, il calcolo dei pesi distribuiti per la corretta stabilità del cargo.
Poi, in plancia, insieme al Comandante e i suoi ufficiali ad imparare, a tracciare le rotte, a governare la nave con il timone, a calcolare il “punto-nave” con il sestante, partecipe nel dirigere l’insieme del lavoro di quaranta uomini.
Infine il momento del “rancio, della refezione”. Nella sala ufficiali dove ricordo musica e bollettini ai naviganti uscire da una radio sempre sintonizzata su stazioni italiane tramite le onde corte.
Il volo degli uccelli migratori che si posavano sui bighi per riposarsi e approfittare “di un passaggio” o dei delfini che giocavano con le onde causate dalla prua della nave. Senza dimenticare i gabbiani che si facevano “vivi” verso mezzogiorno e la sera in attesa che il cuoco gettasse in mare i residui di cibo.
Avevo solo 8 anni quando feci questa prima esperienza di viaggio, in viaggio con mio padre.