Proprio mentre è in corso la tournee italiana del cantautore statunitense esce il libro che raccoglie la traduzione dei suoi testi e, allegato, un cd con dieci suoi classici reincisi ad hoc. La storia, i consapevoli limiti, il cuore vibrante, le futili glorie mancate e la fiamma sempre accesa di un grande rocker, amato più in Europa che in Usa. O forse no.
Ci sono molto modi per spendere bene, anzi benissimo, 18 euro. E uno di questi è certamente acquistare “Vagabond Moon”, il nuovo volume edito dalla ravennate Fernandel (www.fernandel.it, 256 pagine a cura di Paride Guidetti) che, nel celebrarne i trent’anni di carriera discografica, raccoglie i testi di tutte le canzoni – inglese e traduzione italiana a fronte – di Willie Nile, uno dei più rispettati songwriter dello sconfinato sottobosco musicale americano. Un cantautore “di culto”, come si usa dire. E particolarmente amato dal pubblico italiano, che proprio in questi giorni ha l’opportunità di vederlo in tournee (le date sono qui).
Anche perchè il volume è accompagnato da un cd con dieci classici che il cantautore di Buffalo ha reinciso per l’occasione, offrendo nuove scintillanti versioni di canzoni come (appunto) “Vagabond Moon“, “I like the way“, “On the road to Calvary” e “Streets of New York“. Un cd che, è ovvio, vale da solo il prezzo del “panino”. Completano l’opera una discografia completa e un breve saggio dedicato a Nile e a New York, la sua città d’elezione, da due vecchie conoscenze della critica rock nostrana, Marco Denti e Mauro Zambellini.
Ci sarebbe in effetti molto da scrivere ancora su Willie Nile, sulla sua figura emblematica di un certo mondo sotterraneo e di certe risapute dinamiche dell’industria discografica, ma anche sullo speciale rapporto che lega il musicista all’Italia, un rapporto che nasce essenzialmente dalla buona stampa (e alla relativa popolarità) goduta qui da noi ai suoi esordi e dall’indubbia sintonia che certi musicisti americani di solida cultura urbano-letteraria (penso a un altro caso esemplare, quello di Elliott Murphy) riescono da sempre a trovare presso la parte più adulta della nostra audience.
Perchè – fuori dalla retorica un po’ frusta degli ex nuovi Dylan, degli artisti puri e perennemente incompresi, dei Bleecker-eroi di cui spesso si popolano il nostro immaginario e il lessico della critica – Nile merita soprattutto rispetto e apprezzamento per l’ininterrotta linearità artistica, per l’intrinseca e molto umana semplicità, per la modestia degli atteggiamenti e delle espressioni correnti, che nulla tolgono al valore dell’artista ma contribuiscono a raschiare via la patina fastidiosamente agiografica di cui alcuni personaggi tendono, loro malgrado, ad ammantarsi con il passare degli anni.
A tale riguardo, anzi, sentirlo suonare dal vivo, lui solo con il fido batterista-produttore Frankie Lee, in un ristorante da appena quaranta coperti di una cittadina “upstate” NY, vederlo poi uscire dalle cucine con la chitarra a tracolla e rientrarci dopo due ore e passa di concerto, per ritrovarselo in treno durante il rientro in città, ha molto da insegnare sull’apparente inconciliabilità tra umana fisicità e mito, tra critica e fan, tra passato e presente, tra suggestioni antiche e la serenità dettata dall’esperienza.
Autoironia e pacato orgoglio, buone frequentazioni (da Bruce Springsteen a Lucinda Williams), consapevolezza e cinismo, entusiasmo e saggezza: tutto, mescolato nel tritacarne dell’esistenza, contribuisce a fare oggi di Nile quello che chi mastica di musica definisce un rock musician perfetto. Sospeso tra poesia e disincanto, tra pragmatismo e feeling. Come quando, dopo quasi trent’anni di carriera, Willie incide album di straordinaria potenza quale “Streets of New York” e poi lo condisce con la voce tremula e l’inconfondibile lirismo della title track, canzone capace da sola di far rimaterializzare davanti agli occhi tutte le vecchie storie del Kenny’s Castaways, di Georgie e Agnes “behind the cathedral”, di Golden Down “put a smile in this lonely town”.
Se c’erano dubbi che Willie Nile, con la sua carriera a corrente alternata, sapesse invecchiare bene, il minicd “Vagabon Moon” li fa dissipare tutti, mentre il libro ne immortala la lucente compiutezza. “What a fine thing to make love and survive”.