Il mio treno parte alle 7.30 (e non, purtroppo, battistianamente alle 7.40, ma questo non è importante).
Ho una mezz’ora d’attesa.
In altri tempi avrei bofonchiato in un angolo o sfogliato un giornale comprato, ancora fresco di stampa, alla bancarella di un giornalaio imbacuccato.
Ma siamo nel 2019: la Feltrinelli è invece già aperta e mi ci infilo dentro.
Che idea e che business, penso tra me e me, aver trasformato i luoghi di attesa in luoghi ove l’attesa si inganna comprando, col conforto pure del bar. Altro che sale d’aspetto puzzolenti trasformate in bivacchi.
Mi aggiro tra corridoi e scaffali, osservo, sfoglio, leggiucchio. Trovo anche qualcosa di interessante.
All’improvviso ho però un sussulto, un attacco di angoscia, quasi un senso di colpa.
Ma che sto facendo, mi chiedo.
Metto un attimo a fuoco.
E in sequenza realizzo che:
1) non sto comprando nulla nonostante le favorevoli circostanze di tempo e di convenienza;
2) se non compro, è perché so comunque di poterlo fare dopo, altrove, o domani, e adesso portarmi appresso un libro o due mi impiccia;
3) non trascrivo sul primo foglietto trovato in tasca, come ho sempre fatto, il titolo del volume che mi interessa o l’idea che mi sovviene osservandolo, ma tiro fuori il cellulare e per pro memoria fotografo la copertina;
4) vedo il nuovo romanzo di Murakami a prezzo scontato e la prima cosa che mi viene in mente è se su Amazon l’ho pagato di meno o di più;
5 ed ultima): metto tutti questi pensieri insieme e ne desumo che l’idea geniale della libreria convertita in sala d’attesa (o viceversa) alla fine si concreta nel trasformare la libreria stessa in una banale vetrina di libri che la gente sfoglia senza comprare e che, probabilmente, comprerà on line o da un’altra parte.
Sono le 7.25 e io prendo il treno a mani vuote e il telefonino pieno foto di copertine. Tristezza. Smarrimento.
Ciuf ciuf