Addio al grande inviato del Corriere della Sera, uno da cui ho imparato che il grande inviato parla e pensa esattamente al contrario di come ci si immagina parli e pensi un grande inviato.

 

Quando, una ventina di anni fa, incontrai per la prima volta Ettore Mo, le impressioni furono tre.

La prima, e non me l’aspettavo (perchè, chissà come mai, dei grandi inviati ti fai sempre il film di uomini aitanti), è che fosse, fisicamente, un omino. Proprio un omino, minuto e proporzionato, che sprofondava nella grande poltrona su cui stava seduto. Perfino minuscolo: credo non superasse l’1 e sessanta.

La seconda fu la sua controllata, sobria eleganza. Un’eleganza non tanto di abiti, quanto di stile. Una sobrietà così ineccepibile da apparire mimetica. Sintomo forse, mi piacque immaginare, anche di una certa timidezza.

La terza fu appunto la sua timidezza. Che però non era proprio tale. Era piuttosto una sorta di disinvoltura consapevole e modesta, navigata. Faceva il paio con gli abiti e coi modi, traducendosi in una profonda semplicità e in una naturale stabilità.

Tutte sensazioni che non furono smentite nel corso di un lungo incontro che, altra sorpresa, non ebbe affatto i pur prevedibilissimi toni di quelli tra il maestro e l’allievo.

Si parlò normalmente, tra colleghi, di argomenti che interessano tra colleghi. E la cosa mi colpì assai. Fu quel tipo di conversazione un po’ confidenziale e un po’ catartica che puoi avere durante una lunga trasferta di lavoro tra luoghi sconosciuti a bordo di un pick up in mezzo al mondo, quando sobbalzando un po’ parli, un po’ pensi, un po’ ti guardi intorno e un po’ fai attenzione ad aggrapparti bene al maniglione.

Quella volta, però, non c’erano nè sobbalzi, nè alcun maniglione. Soprattutto non ci fu traccia di quell’accondiscendenza, bonaria ma percepibile, con cui spesso, in certe situazioni, chi è sopra si sforza di mettersi alla pari con chi è sotto, per non farti sentire a disagio o per non far pesare i propri galloni sugli interlocutori. Ebbi anzi l’impressione che a Mo quei pensieri non fossero nemmeno passati per la mente. Parlava come gli veniva naturale. Pareva che a lui, ormai settantenne ma ancora vispissimo, conversare di un lavoro qualunque coi colleghi fosse un modo per avere la conferma di essere in mezzo a loro.

Con grande e asciutta parsimonia ci raccontò qualche episodio dei suoi, ma più come esempio di situazioni concrete che come stralci di storie mirabolanti.

Da quella semplicità così esplicita trassi una grande lezione professionale, che non ho più dimenticato.

Essa mi mostrò il modo di pensare, lo state of mind di un grande inviato che pensa e si atteggia come un inviato normale e in ciò sta la sua grandezza: una miscela di disincanto, ragionevolezza, consapevolezza, esperienza, riservatezza, curiosità, dubbio, fatalismo e modestia.

Oggi Ettore Mo, una vita avventurosa che altri stanno raccontando assai meglio di quanto sarei capace di fare io, ci ha lasciato a 91 anni. Mi tengo stretto il suo libro con dedica e soprattutto quella chiacchierata.