Presentati al Festival di Perugia i primi risultati del sondaggio ONA “Giornalismo, un’impresa”, che conferma le ambiguità e le perplessità sulla pompata (da chi vi ha interesse) figura del giornalista – imprenditore. Sarebbe mal di poco, se ad alimentare l’equivoco non ci si mettesse anche l’OdG.
Non ho mai fatto mistero della mia estrema perplessità verso la figura del cosiddetto “giornalista-imprenditore”, di cui da un po’ si fa un gran parlare, e della mia convinzione che tale figura sia, legge professionale alla mano, appunto incompatibile con quella del giornalista. Per molte ragioni. La prima delle quali è che l’imprenditore, nel campo dell’informazione, è l’editore, cioè colui che persegue un (legittimo) reddito, anzi un profitto, conducendo un’impresa editoriale: cosa che però lo pone in insanabile conflitto di interessi con la qualifica di giornalista, il quale il reddito lo persegue o attraverso il lavoro dipendente, cioè la riscossione di uno stipendio, o attraverso la libera professione, quindi la produzione di un reddito da attività professionale.
Me ne sono occupato plurime volte su Alta Fedeltà (ad esempio qui) e quindi rimando gli interessati ad approfondire, se lo credono, attraverso il link o il motore di ricerca di questo blog.
Ci torno sopra, però, perchè sul sito dell’OdG della Toscana leggo che al Festival del Giornalismo di Perugia sono stati presentati i primi dati del sondaggio ONA Italia sul tema “Giornalismo, un’impresa” (chiunque volesse partecipare lo può fare online qui) . L’Ona è la Online News Association, l’associazione internazionale no profit di giornalisti digitali che ha per obiettivo connettere il giornalismo, la tecnologia e l’innovazione.
Ebbene: anche i risultati del sondaggio (puramente conoscitivo, come correttamente hanno specificato i promotori) sembrano dimostrare che quella del giornalista imprenditore non è una figura individuata e circoscritta, una specificazione insomma, di giornalista, ma un’etichetta con la quale si tentano di catalogare attività disparate, esercitate in modo disparato, da soggetti disparati, in forme disparate. E, soprattutto, riconducibili per caratteristiche molto all’impresa e poco al giornalismo. Lo dimostra anche l’enunciazione come di “coloro che organizzano i mezzi di produzione creando beni e servizi giornalistici, sostenendone i rischi economici e creando nuovo lavoro”.
In sintesi:
– solo una trentina di realtà hanno finora aderito al sondaggio: tutte nate nell’arco degli ultimi venti anni ma la metà negli ultimi sei. Se però si considera che l’esigenza di contemperare impresa e giornalismo è frutto principalmente della crisi dell’ultimo decennio, quelli riportati non mi sembrano numeroni. A meno che il basso numero di risposte venga dalla reticenza di chi sa di muoversi su un terreno infido.
– l’età media dei giornalisti che hanno risposto risulta abbastanza alta, “segno che il giornalismo imprenditoriale è una realtà alla quale si approda a carriera avanzata“. E’ un altro punto da interpretare, tuttavia: l’età avanzata confligge infatti frontalmente con lo sviluppo di un’attività nata quasi integralmente con l’arrivo della tecnologia digitale, il cui utilizzo è per ragioni ovvie in gran parte in mano ai più giovani.
– le forme giuridiche delle imprese giornalistiche sono varie: 7 srl, 4 srl semplificate, 4 associazioni, 3 cooperative, 3 partite iva, 2 snc, 1 studio associato, 1 sas e 5 tipologie informali (impresa, persona fisica o blog personale). Insomma un potpourri che, comunque, abbraccia in prevalenza forme giuridiche tipiche dell’impresa (srl, coop, sas) e non dell’attività libero professionale, a dimostrazione che si tratta di attività imprenditoriali e non giornalistiche (se non nel contenuto prodotto, che è un altro discorso).
– il 53,33% dichiara di avere raggiunto il pareggio, ma in termini di fatturati e stipendi tre su 35 non hanno specificato le proprie entrate, una non è lucrativa e una ha denunciato un fatturato medio degli ultimi 3 anni di 7mila euro. Dunque risulta abbastanza difficile intravedere l’unico punto che impresa e professione dovrebbero avere in comune, ovvero la necessaria redditività. Inoltre, sempre secondo ONA, gli stipendi risultano molto bassi: da 300 ai 1600 euro per i promotori, mentre per i collaboratori l’80% degli intervistati non indica compenso e la media va dai 25 ai 30 euro a pezzo.
– Molte realtà trovano un equilibrio economico grazie ad un mix tra attività editoriali e di comunicazione.
Alla fine dei conti resta l’impressione che dietro la pomposa definizione ci sia il tentativo di dare una verniciata di giornalismo ad attività trasversali che – senza dubbio legittimamente e, aggiungo, comprensibilmente e giustamente – molti giornalisti messi in difficoltà dalla crisi sia economica che della professione mettono in piedi per procurarsi un reddito con cui vivere. Ma che di giornalismo hanno spesso solo la qualifica di chi le esercita e non la natura dell’attività.
Tutto questo, lo ripeto, alla luce dell’ordinamento giuridico vigente e in particolare della legge professionale in vigore.
Nulla vieta che questa venga riformata e che vengano individuate forme in grado di rendere compatibili l’esercizio di un’impresa e la professione giornalistica, ma finora questa possibilità non c’è: per gestire l’azienda l’imprenditore ha necessità di fare cose (ad esempio pubblicità) che il giornalista non può fare.
Il problema è che, come il notiziario specifica, “l’Odg Toscana sta attivando accordi con vari istituti di credito della regione per promuovere finanziamenti agevolati ai giornalisti che vogliano intraprendere la libera professione“: iniziativa ottima, ma far credere agli iscritti che creare un’impresa corrisponda ad esercitare il giornalismo in forma libero professionale è una solenne (mi perdonino i colleghi) e pericolosa sciocchezza.