“Ciliegiolo di Maremma e d’Italia”, tenutasi nella Fortezza Orsini di Sorano, è la kermesse per la riscoperta di un vitigno un po’ oscuro che, più di tutto, ha bisogno di difendersi dagli eccessi.
Come spesso accade, assaggiare i vini in santa pace, senza gente che bercia o peggio li commenta attorno, è fondamentale per farsi un’idea.
Ma poi i discorsi interessanti vengono fuori quando si parla coi colleghi.
Prendiamo il Ciliegiolo, vitigno centroitaliano minore, ma oggi di gran moda nel solco della monovarietalità commerciale, a cui al Castello Orsini di Sorano (“lo zolfanello d’Italia“, come fu definito per via della sua posizione militarmente strategica) il Consorzio Tutela Vini della Maremma Toscana ha dedicato giorni fa un’interessante kermesse di studio e di degustazione, estesasi poi alla vicina e affine Pitigliano.
Sulla scelta della sede – bellezza dei luoghi e del monumento a parte – c’è poco da dire perchè il motivo era ovvio: dei 69 campioni in assaggio, presentati da 42 aziende, quattro venivano dalla Toscana extramaremmana, due dal Tigullio, sei dall’Umbra, uno dalle Marche, uno dal Lazio e ben 43 dalla Maremma grossetana. Dove tuttavia il Ciliegiolo era e rimane un vitigno minore: “Come consorzio produciamo complessivamente 7 milioni di bottiglie, delle quali solo 400.000 appartengono a questa tipologia“, ha spiegato il presidente Francesco Mazzei.
Viene coltivato, oltre che in Toscana, in Umbria, Lazio, Emilia-Romagna, Marche, Liguria, Basilicata, Abruzzo e, in modo assai minoritario, in altre cinque regioni d’Italia. La maggiore diffusione di questo vitigno è appunto in Toscana, dove si contano circa 525 ettari, quasi il 60% dei quali sono concentrati in provincia di Grosseto, dove danno vita a numerose etichette della DOC Maremma Toscana Ciliegiolo, ha illustrato il direttore Luca Pollini. Il totale italiano si attesta oggi sui 1.165 ettari, poco più di un quinto dei 6.000 censiti nel 1982 (ma i dati sulla produzione di barbatelle mostrano un forte e costante incremento negli ultimi sette anni).
Questa concentrazione-non-concentrazione produttiva e la diversità degli stili, diciamo anzi la notevole dispersività riscontrata in tal senso tra i campioni, ha dato la stura in sede conviviale a non pochi ragionamenti, che talvolta hanno finito per mettere in secondo piano le questioni legate ai diversi terroir.
Io mi sono trovato d’accordo con chi, pacatamente, ha sostenuto che quest’uva vada interpretata “senza eccessi”: ossia – e la cosa è tutt’altro che banale – senza inseguire per forza un’identità aziendale già consolidata in altri vini, un’originalità tecnica a tutti i costi o una riconoscibilità commerciale a prova di bomba, ma lasciando parlare il vitigno. Vitigno che, nella sua piacevolezza, non mi è parso, varianti dettate dai territori a parte, nè così caratterizzante, nè così caratterizzato, nè vocato alle letture estreme (tipo il lungo invecchiamento per forza) che qua e là è invece capitato di intercettare tra un assaggio e l’altro in fortezza, soprattutto in relazione alle tecniche enologiche utilizzate. Le quali, talvolta, hanno pure dato risultati contraddittori rispetto a quanto poi trovato nel bicchiere.
Del Ciliegiolo, del resto, a parte il nome facilmente memorizzabile e quindi utile per chi deve farne marketing, si sa abbastanza poco.
Salva la menzione del Soderini, che nel 1590 parla di “ciriegiuolo” (ma che si trattasse del Ciliegiolo che intendiamo noi è tutto da dimostrare) quest’uva, geneticamente figlia di Sangiovese e Moscato Violetto, sembra “scomparire” dai trattati per oltre tre secoli, salvo ricomparire nel 1937, quando De Astis “lo descrive accuratamente e ricorda come vi siano ipotesi contrastanti la sua origine dello stesso, mentre nel 1914 Racah affermava che sarebbe arrivato dalla penisola Iberica“, ha spiegato Paolo Storchi, direttore del Centro ricerca Viticoltura ed Enologia del CREA di Arezzo.
Venendo alle degustazioni, dei dieci campioni (nove maremmani e tre “ospiti” da altre zone o regioni) presenti alla masterclass (Dio mi perdoni per l’uso di quest’orrido e inflazionato termine, ma è per capirsi) “Il Ciliegiolo come fedele traduttore delle identità territoriali“, devo ammettere che, pur nella piacevolezza generale, pochi vini mi hanno davvero convinto.
Più di altri mi sento di segnalare, per linearità e croccantezza, il Briglia 2021 Terre dell’Etruria Maremma Toscana doc Ciliegiolo, il Ceresi 2021 Gagliardi Marche Igt Ciliegiolo e il Sillo 2021 Tenuta Montauto Maremma Toscana doc Ciliegiolo.
Nella ancora più controversa, per via degli stridenti contrasti tecnici e stilistici tra un vino e l’altro, seduta mattutina, bene invece il Toscana Ciliegiolo IGT Mastrojanni, il Toscana IGT Ciliegiolo 2020 Vallerana Alta 2020 Antonio Camillo, il Toscana IGT Ciliegiolo Rotulaia 2021 di Rascioni & Cecconello, il Maremma Toscana doc Ciliegiolo San Lorenzo 2019 di Sassotondo, il Costa Toscana Igt Ciliegiolo 2022 di Val di Toro e il Ciliegiolo Narni Igt 2020 di Giovannini.
Resta la curiosità di capire dove porti la strada del mercato, capace spesso di condizionare i produttori (in fondo, come dargli torto?) più di ogni altra cosa.