di URANO CUPISTI
2002: seguendo, per evitare quelle dei vacanzieri a stelle e strisce, l’insolita rotta Milano–Zurigo-Santiago-Pasqua–Papeete, un sedicente profesòr approda nell’isola dei Moai. Un viaggio che non dimenticherà.
Per una questione di buon gusto e di principio, per me era prioritario raggiungere la Polinesia francese senza fare scalo nè a Los Angeles né a San Francisco, per evitare la massa chiassosa dei vacanzieri americani con le magliette a fiori, i cappellini e le infradito.
Nella scelta dell’itinerario alternativo mi aiutò l’amico di un’agenzia di viaggi: “Fai Milano – Zurigo – Santiago del Cile – Isola di Pasqua – Papeete, con uno stop a Pasqua di tre giorni all’andata e di cinque al ritorno“, mi disse.
E così feci, partendo alla scoperta della 638 statue dei Moai, del loro mistero e del loro perché.
Non solo Moai, in verità. Ma anche passeggiate sul bordo dei vulcani Poike, Rano Kau, Rano Raraku e Terevaka, il passaggio dei capodogli in migrazione dall’Oceano Pacifico all’Atlantico, la pioggia battente (quasi tutti i giorni piove), l’isolotto Moto Nui, al mito dell’Uomo Uccello.
Isola di Pasqua si chiama così perché fu scoperta il giorno di Pasqua del 1722 dal navigatore olandese Jacob Roggeveen. Il nome e la data rappresentano l’unica certezza di questa isola misteriosa. Tutto il resto è legato a leggende, miti, enigmi e segreti collegati a culti religiosi. Tutte supposizioni in una terra indecifrabile. Un mistero che si alimenta da sé con il passare dei secoli.
L’aeroporto di Mataveri possiede una pista d’atterraggio come quella del Kennedy Space Center in Florida, dove a 300 Km/h, atterrano gli Shuttle. Non a caso l’Isola di Pasqua rientrava nel progetto della NASA che prevedeva una rete di siti idonei agli atterraggi di emergenza. Della costosissima operazione, solo la pista è stata però portata a termine.
Nel 2002 mi ci vollero cinque ore di volo per arrivarci, tante quante al ritorno da Papeete.
Con i suoi 24 chilometri di lunghezza e 13 di larghezza su una base basaltica sottomarina profonda tremila metri, Pasqua è i suoi circa 4mila abitanti (l’ultimo censimento è proprio del 2002) sono isolati dal resto del mondo, senza alcuna barriera corallina a difenderli.
Il piccolo porto di Hanga Roa, capoluogo dell’isola, mi colpì allora per la variopinta flotta di pescherecci ormeggiata. All’epoca del viaggio la pesca rappresentava la principale fonte di sostentamento per la comunità.
L’origine vulcanica fa sì che la costa abbia con un’unica, vera spiaggia, Anachena, e disponga invece di un numero considerevole di grotte, usate per molti secoli dalla popolazione indigena come luoghi di culto. E ad Anachena una nutrita serie di Moai a vigilare l’ingresso più facile all’isola.
Il dio Makemake e l’Uomo Uccello ritrovano viceversa nei dipinti rupestri e altorilievi che adornano molte di queste grotte.
Girai l’isola di Pasqua in lungo e largo con una jeep presa a noleggio.
Mi sentivo Indiana Jones e entrai subito nel personaggio mettendomi sulle tracce di Makemake, l’antico idolo della fertilità.
La parte autoassegnatami mi appagò al punto da indurmi a comprare l’abbigliamento, cappello compreso, che era stato di Harrison Ford. E la gente mi additava come un archeologo importante. E a incrementare questa nomea ci pensò il proprietario della guest house dove pernottai.
Si chiamava “de Noro y Ramana”, proprio come i personaggi del film Rapa Nui, e il proprietario si vantava essere un discendente della famiglia nobile dalle lunghe orecchie, quella di Noro. Venni a sapere che il suo vero nome era Pedro arrivato sull’isola una ventina d’anni prima, in “fuga” da Santiago del Cile.
Nell’osservare il passaporto fraintese la mia professione: professionista. Da professionista a professore il passo fu breve. E visto che poi gli unici professori frequentatori dell’isola erano in gran parte archeologi, divenni subito il Profesor Arqueólogo Urano.
A negare non ci pensai nemmeno. La mascherata mi piacque e devo dire che mi permise, con l’aiuto del mio ispanitaliano, di visitare le grotte e gli anfratti nascosti ai più.
I grandi busti dei Moai, alcuni dei quali raggiungono i 10 metri di altezza (uno incompleto e adagiato nel cratere è lungo ben 21 metri), furono ovviamente l’attrazione maggiore. Di fronte a loro rimasi impressionato.
Nelle pur affascinanti letture prima del viaggio non avevo colto del tutto il sendo dell’imponenza di queste statue. Il loro scopo, ancora oggi misterioso, libera la fantasia. Cosa certa è l’essere rivolte verso l’interno dell’isola e non all’esterno. C’è chi li vuole eretti in omaggio dei capi tribù morti, chi degli spiriti dell’oltretomba, a difesa dell’isola.
Da bravo finto arqueólogo passai molto tempo nella cava che si trova nel cratere al centro dell’isola a studiare (si fa per dire, dandomi un contegno da profesor) dove e come venivano scolpiti i Moai. E cercare di capire come riuscissero, con le tecniche di allora, a mettere in piedi monoblocchi di pietra da 80 tonnellate.
Il famoso film Kevin Reynolds del 1994, molto romanzato e ricco di errori storici, aveva già tentato di raccontare, senza che ne esistessero prove, il mistero del disboscamento totale dell’isola avvenuto prima del 1500, legando questo avvenimento al rito del “trasporto” dei monoliti dalla cava ai vari siti lungo la costa.
Gli antichi pascuani (si dirà così?), che erano rigorosamente divisi nella casta aristocratica delle “lunghe orecchie” e in quella, sottomessa, delle “corte orecchie“, non conoscevano la ruota. E’ stato quindi azzardato che il trasporto avvenisse facendo scivolare le statue su letti di tronchi. Il taglio delle grandi foreste fino all’ultimo albero, per lo più palme dagli alti fusti, troverebbe così una spiegazione.
Ma questa non è che una teoria come tante. Un’altra suppone che il disboscamento sia avvenuto per recuperare terreni fertili per la coltivazione dei banani. Un’altra, molto più fantasione, suggerisce che siano stati dei roditori polinesiani giganti a mangiare il legno dei fusti alla base, causandone la caduta.
Fu invece il colorito racconto di Noro (cioè Pedro, il proprietario della guest house) durante un tramonto ai piedi di un enorme Moai nella periferia di Hanga Roa a tentare di far credere a tutti i presenti che sarebbero stati i Tangata Manu, ovvero gli uomini uccello guidati dal dio della fertilità Makemake e dotati di una forza misteriosa, trasportare i colossi di pietra fino alla loro destinazione.
Ed io, accanto, sdraiato al monolite, cercai di percepire da lui un sussurro di consenso.
Le serate pascuali alla guest house trascorrevano del resto nella conversazione: si parlava di Rongorongo, una scrittura indigena ancora oggi non del tutto decifrata, e di Rei Miro, la tavoletta portata sul petto da colui che ogni anno ricopriva l’incarico di uomo-uccello dopo aver vinto prove di coraggio. Oggi Rei Miro è raffigurata nella bandiera locale.
Insomma, visitare quello che è ricordato come l’ombelico del mondo, Rapa Nui, mi riempì la testa di fatti incomprensibili, di eventi inspiegabili misti, di dogmi, segreti, dubbi che porterò con me per sempre. Qualifica di Profesor Arqueólogo inclusa.