Continuamente evocato a panacea di tutti i mali e agitato propagandisticamente come la soluzione monocolturale per il domani, il settore turistico (o il suo miraggio) rischia di diventare l’oppio delle piccole comunità, in un grottesco intreccio di provincialismi, incompetenze, miopie, localismi e lacune culturali croniche. Forse solo la lunga crisi economica e la feroce scrematura che essa sta portando con sè potranno sgombrare il campo da demagogia, illusioni e sacche di persistente ciarlatanismo.
Nell’immaginario collettivo e profondamente provinciale dell’italiano medio, il turismo – ovvero quel fenomeno che, sempre restando nel radicato immaginario nostrale, si sostanzia in una torma di babbei con la bocca perennemente aperta davanti a non si sa cosa, pronti a pagare qualsiasi cifra, a bere qualsiasi balla e ad accettare qualsiasi truffa – rappresenta da un lato una “risorsa” genericamente intesa, della quale però in concreto non si sa nè si conosce nulla, dall’altro l’oggetto sul quale esercitare alcuni degli sport nazionali: demagogia, imbroglio, approssimazione, improvvisazione, abuso di credulità popolare. Uno strumento double face, insomma, l’equivalente economico di ciò che, in politica, è la parola “riforme”: una panacea capace di sollevare unanimi consensi, un miraggio risolutivo di ogni male, un concetto euforizzante, buono per tutte le occasioni, ideale per blandire le folle, gli elettori, i commercianti, i giornalisti.
L’idea che nel nostro paese, e purtroppo nella testa della stragrande maggioranza degli addetti ai lavori, si ha di turismo è infatti quella di un’industria totalizzante, anzi di una monocoltura, in funzione della quale – essendo essa ritenuta la facile soluzione a “tutto” – tutto si polarizza e tutto va polarizzato: dalla gestione del territorio a quella delle opere pubbliche, dalla pubblica sicurezza alle politiche giovanili, dalla politica delle infrastrutture a quella dei trasporti, dalla sicurezza alimentare al paesaggio, dall’urbanistica all’architettura. Le paroline magiche sono sempre le stesse: “sennò non vengono i turisti”, oppure “sennò i turisti se ne vanno”. Dove i turisti sono smarrite mandrie in brache e ridicoli cappellini da baseball (l’archetipo è l’americano, lo stesso a cui Totò nel dopoguerra cercava di vendere il Colosseo), che si spostano preferibilmente in pullman (il “gruppone” è l’ideale per riempire in un colpo solo pizzerie e trattorie di mezza tacca, dove una margherita si paga come una bistecca e c’è il menu fisso con la pasta scotta) e che vanno avidamente in cerca dei più pacchiani souvenir, per la gioia dei bancarellai.
Un’esagerazione? Forse. Ma andatevi a sentire certe infuocate assemblee tra “operatori turistici” di provincia. Andate a scandagliare i motivi per i quali si registrano arrivi in calo e presenze a picco. Fate esegesi degli illuminati pensieri di certi assessori locali, preparati in materia come me in astrofisica. Saranno sempre “loro”, i turisti, che non vengono (perchè manca la promozione, perchè manca l’aeroporto, perchè la strada è troppo stretta per i torpedoni, etc) e non saremo mai “noi” (cioè gli operatori) incapaci di farli venire.
Questa mentalità rapinesca, pur dissimulata, permea qualsiasi discorso di medio livello si faccia in Italia a proposito del turismo. E il lessico lo dimostra: i turisti vanno “attirati” (come le mosche, non a caso), addirittura “catturati”. E’ sempre una questione di “pubblicità”, l’equivalente meno colto della “promozione”. Esperienza, competenza, preparazione non valgono nulla. Nel turismo chiunque può improvvisare. Del resto, se c’è riuscito il manager che dieci anni fa ha lasciato le grisaglie milanesi per aprire l’immancabile “agriturismo in Toscana” (e poi scappare, onusto di debiti, un lustro più tardi, ma questo non si sa o non si dice), perchè non dovrebbe far fortuna l’ex ferroviere, il geometra in pensione, lo spiantato creativo? Quindi via ai progetti più cervellotici. Sperdute località appenniniche in cui, a causa del riscaldamento globale, la neve si vede ben che vada un mese all’anno, credono di risolvere il problema dello spopolamento e della crisi economica vagheggiando di costruire un paio di seggiovie poco sopra quota 1000 mt (“tanto ci sono i cannoni”), come se negli ultimi quarant’anni l’industria degli sport invernali non si fosse appena appena evoluta e globalizzata. Lande desolate e aride della media collina prospettano un futuro luminoso e progressivo reinventandosi come zone di produzione vinicola doc (“il turismo del vino porta migliaia di persone”, hanno letto da qualche parte), senza essersi accorte che il settore ha imboccato da un pezzo la via del tramonto. Tutti, poi, vogliono l’aeroporto. Nulla vale il fatto che l’80& dei piccoli scali italiani siano cronicamente semivuoti e in deficit, niente conta la precoce crisi del fenomeno low cost, portatore qua e là di transeunti benefici, lasciandosi però alle spalle cattedrali nel deserto e “buchi” spaventosi. No: non c’è cittadina, paesone, perfino paesotto che ora non voglia una pista d’atterraggio con immancabile duty free shop e orpelli connessi. Il perchè è logico: “porta turisti”. Certo, come mai non ci avevamo pensato prima?
Ecco, sono anche discorsi di questo tipo che si sono orecchiati ieri a Firenze, durante il convegno “Toscana&Turismo” organizzato dalla Regione, nella platea popolata da direttori di Apt, assessori di vario rango, presidenti di consorzi e associazioni, funzionari, rappresentanti delle categorie economiche. Intendiamoci: non da tutti. Ma da parecchi, sì.
Di che meravigliarsi, del resto, se il turismo e i miraggi additati in suo nome sono diventati dalle nostre parti sempre più uno strumento di pura propaganda e di raccolta di consenso politico, anzichè un mezzo per consolidare e sostenere l’economia?
E bene ha fatto quindi il neoassessore regionale (al turismo e alla cultura insieme, come dire il 50% della toscanità: in bocca al lupo!), Cristina Scaletti, a sottrarsi a certe striscianti polemiche sollevate dalla stampa a proposito, ad esempio, di integrazione degli scali e di campanilismi aeroportuali: “Miglioriamo innanzitutto le infrastrutture esistenti”, ha raccomandato di fronte ai giornalisti. “E impariamo le lingue”, ha rincarato, riportando per fortuna il dibattito con i piedi per terra (appunto…). Pare infatti che in questo pur basilare strumento di marketing turistico perfino la turisticissima Toscana stenti tuttora e non poco.