di GIULIO VOLONTÉ
I “mercati di nicchia” hanno massa sufficiente a sostenere l’intero comparto? E’ efficace il marketing che promuove destinazioni di massa facendo leva su offerte di nicchia? E se fosse molta fuffa e poco arrosto?
Ci sono termini che vengono spacciati per buoni in qualsiasi situazione, in ogni contesto, in ogni tempo. Ecco che, anche in questi giorni, in molti, autonominatisi esperti, rispolverano la “nicchia” come brillante soluzione ai problemi di ogni singolo settore economico. Spacciatori di fuffa che faticano a ritagliarsi uno spazio, pardon, una nicchia, nel settore della produzione industriale – un settore tradizionalmente più legato ai freddi numeri ed ai risultati misurabili, piuttosto che alle suggestioni – ma che “sfondano” facile tra gli operatori della parte meno strutturata del comparto enogastronomico e turistico.
Il discorso vale per vini, formaggi, salumi e numerosi prodotti che affollano improbabili scaffali di negozi di nicchia, complicando il mercato anche a quelle aziende, piccole ma preparate e strutturate, che avrebbero qualità e numeri per emergere.
Sembra faccia tutto pendant con il concetto, ormai sdoganato dalla politica, dell'”uno vale uno“, dimenticandosi che la produzione di un vino di qualità, di un liquore o di un formaggio di eccellenza sono cose che non si improvvisano. Neanche in tempi di covid.
La pesante covid-crisi che ha colpito il settore turistico, sembra abbia riacceso le ambizioni di consulenti ed esperti, o presunti tali, alla ricerca di spazi nei quali infilarsi, perché, si sa, ogni consulente ha, tra le frecce del suo arco, una potentissima arma della filosofia orientale che, solo a pronunciarla, provoca la trascendenza dello stesso al livello di un maestro zen: “In cinese, la parola crisi è l’unione di due parole: pericolo ed opportunità”.
“Fare o non fare. Non c‘è provare!” Questo, invece, lo diceva il maestro Yoda.
Così, ecco che vengono abilmente rispolverati termini ormai datati, spacciandoli per innovativi e propagandandoli per moderne strategie valide, indifferentemente, per affrontare ogni tipo di problema.
“Le atmosfere autentiche“, “il turismo esperienziale“, “la vacanza personalizzata”, l'”immersione reale nella cultura locale“, ovviamente, tutto sotto il grande ombrello del turismo di “nicchia”.
Però, se oltrepassata la cortina fumogena, ci si ferma a dare un’occhiata a due numeri, ci si accorge che – pre covid – il turismo mondiale faceva registrare 1,4 miliardi di arrivi, per un valore complessivo dell’export di 1,7 trilioni di dollari. Terzo comparto dell’export mondiale, a brevissima distanza dai volumi economici generati dal settore chimico e quello dei carburanti (*).
A questo punto, l’unica domanda che mi viene da fare è “ma che nicchia state dicendo?”
È evidente che la competizione globale per accaparrarsi una fetta della torta sia abbastanza agguerrita e che i soldi, quelli che pagano stipendi, tasse ed investimenti, non li portano le nicchie.
Il turismo è un fenomeno di massa e, per farne un asset economico, non può che essere valutato e gestito come tale.
Giusto per precisarlo, non sono un oppositore del turismo alternativo, sostenibile, dei cammini che ricalcano le orme di ogni santo a disposizione, delle iniziative dedicate a target specifici e, magari, di nicchia, anzi, ne sono sempre stato un fervido sostenitore. Contesto il fatto che questo concetto possa essere applicato ad una strategia adatta alla programmazione di interi territori.
Trovo splendido che le singole strutture si caratterizzino e che si rivolgano a gruppi di persone che apprezzano una specifica e ben delineata identità, a condizione che la nicchia individuata sia sufficientemente grande da generare un flusso turistico continuo negli anni.
Però, obiettivamente, non si può pensare che un intero territorio o una regione possano applicare una strategia così specifica, a lungo termine, in un mercato globale.
L’Italia, in questi anni, ha già pagato la divisione in 20 piccoli ministeri del turismo, ognuno dei quali si muove in un mercato nel quale si trova a competere con “sistemi paese” attrezzati per generare un impatto significativo sui flussi turistici mondiali.
In alcune regioni va anche peggio, perché le competenze sono state ulteriormente suddivise in consorzi ed enti territoriali ancora più piccoli.
L’Italia, grazie alla incontrastata notorietà di alcune mete specifiche ed all’instabilità dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, sia sulla sponda sud sia in quella orientale, per ora è riuscita a difendersi, ma per quanto?
Ai numeri che citavo in precedenza, andranno aggiunti quelli che saranno generati dai turisti cinesi che, presto, si affacceranno in massa sul mercato.
Non sarebbe ora di fare a meno di discorsi velleitari, che ci piacciono tanto perché ci fanno ritenere di appartenere ad un’elite di colti viaggiatori, e provare a pensare al mercato turistico nazionale – al quale si lega a doppio filo anche quello enogastronomico – come un sistema industriale?
Che cosa significano termini come “autentico“? Non è forse autentica anche una nave da crociera?
Che significato può avere “turismo esperienziale“? Non è forse un’esperienza anche sorseggiare un bicchiere di vino o un cocktail a bordo piscina in un villaggio turistico?
Come può essere vera una “immersione reale nelle culture locali” quando a casa di zia Maria a mangiare i ravioli ci andranno decine di persone ogni giorno?
E se non ci andassero decine di persone, in decine di case diverse, come si può pensare di fare numeri che tengano in piedi l’industria del turismo?
È evidente che tutte queste mirabili attività possono fare parte di un’offerta complementare, capace di distribuire sul territorio una parte delle ricadute economiche del movimento turistico complessivo. Possono certamente entrare a far parte di una strategia comunicativa delle “suggestioni” ma non possono rappresentare una fonte di reddito importante, a meno di non snaturarle e di non impattare pesantemente su quei territori che dovrebbero essere attrattivi proprio perché “poco frequentati”, trasformandoli in mete del turismo di massa.
Fenomeni come l’iperturismo, l’impatto ambientale di crociere e voli low cost, i danni socio economici causati dall’eccessiva pressione antropica, in particolare a gestirne gli effetti collaterali (basti pensare, per fare un esempio, alle discariche di rifiuti a cielo aperto sorte alle Maldive in conseguenza del successo turistico) sono tutti effetti diretti che, evidentemente, vanno gestiti ma, anche se sembra assurdo, l’unico modo per farlo è quello di trattare il “turismo” come un’industria, con i suoi pro e contro, esattamente come gli altri settori che generano enormi flussi economici.
Per questo, ritengo sia indispensabile una visione sistemica, coordinata e gestita a livello nazionale e solo dopo organizzata in sub livelli, all’interno dei quali, in modo coerente, si muovano tutti gli altri operatori pubblici e privati. Sino ad arrivare a quel livello si, all’albergo ed al ristorante di nicchia, che ha la sua visibilità e funzione proprio perché inserito correttamente in una strategia di più ampio respiro.
Per riassumere, piccolo è bello ma troppo piccolo non si vede.
Il tempo in cui un albergatore o un ristoratore venivano convinti di poter avere il proprio spazio nei flussi turistici mondiali grazie ad innovative strategie di social/web marketing avrà un termine.
I digital imbonitori, quelli che convincevano i piccoli operatori che era sufficiente essere presenti con il proprio sito web o con una pagina sui social, dovrebbero, ormai, avere vita più difficile.
Dovrebbe essere chiaro che sperare che siano gli stessi turisti ad attirare altri turisti – attraverso i loro post su facebook o Instagram, diluiti in questo oceano sterminato di foto ed informazioni gratuite, a flusso continuo e di bassa qualità – è un proponimento decisamente bizzarro.
Non si decide se andare in vacanza in Sardegna, in Toscana o in Puglia spippolando su TripAdvisor, su Booking o simili. Prima si decide “dove” e poi si usano questi strumenti – in modo sempre meno acritico– per trovare il ristorante o l’albergo più conveniente.
Dovrebbe ormai essere chiaro che, per emergere nella competizione globale, sono necessari investimenti enormi che solo le istituzioni possono mettere in campo e che i diversi livelli territoriali, ed i diversi operatori, devono muoversi insieme, in modo coordinato, all’interno di una strategia complessiva.
Scrivo “dovrebbe” perché, tra le dichiarazioni dei politici e le esternazioni di alcuni “destination manager” , mi sembra che non sia chiaro per nulla.
(*) dati UNWTO epoca pre-covid ma che, vista la capacità di ripresa già dimostrata dal settore turistico durante le crisi causate dall’attacco terroristico del 2001 e dalla crisi finanziaria del 2008, ci si può ragionevolmente aspettare che ritornino tali post-covid