“Il reportage di viaggio? Finito per mancanza di lettori, committenza e redditività”, dice il fotogiornalista Andrea Pistolesi a Dig.it, il salone del giornalismo digitale di Prato. Gli rispondono: “Non avete capito nulla“.

 

In cauda venenum: “Secondo me sbagliate tutto“, ha detto alla fine un’attenta ascoltatrice. “Siete gran professionisti del reportage, ma principianti digitali. I modi per mettere a frutto nel web i vostri archivi e le vostre idee ci sarebbero, ma non li conoscete“.
Che voleva dire? Purtroppo non c’era tempo per approfondire e la domanda è rimasta lì, sospesa nell’aria, sufficiente solo a sollevare dubbi, ma senza avere risposte.
Il workshopDal moleskine al social, come si evolve il reportage di viaggio” (qui), che al Dig.it (qui) di Prato avevo appena condotto intervistando un amico e un collega di gran nome, il fotogiornalista Andrea Pistolesi, si era concluso pochi attimi prima. Bel seminario, vivace e partecipato. Al termine del quale, però, noi relatori eravamo giunti a una riflessione sconfortante: professionalmente parlando (cioè in un’ottica di continuità reddituale), quello del reportagista è un mestiere senza futuro per la contemporanea carenza di domanda, di committenza e di redditività.
Pistolesi aveva spiegato la parabola della sua e nostra professione, il progressivo assottigliarsi delle cose da raccontare per effetto della globalizzazione e dell’omologazione culturale, l’inefficacia commerciale di qualunque iniziativa di selfpublishing in rete, il sostanziale disinteresse degli editori a pubblicare (pagando l’autore) storie pur di grande interesse teorico per il lettore. Lo stesso lettore interessatissimo a scaricarle o leggerle gratis su internet, non disposto però a spendere un euro o anche meno per accedervi. “La mia app padplaces (qui), creata nel 2010, in questi anni ha racimolato 15mila visite, ma appena qualche centinaio di click a pagamento“, ha raccontato Pistolesi. “Blog, siti, Facebook non avranno mai la forza per raggiungere un numero davvero significativo di lettori e sono quindi condannati a restare strumenti di autoreferenzialità per giri ristretti di appassionati. Il reportage di viaggio e il suo autore, per mantenersi attraverso la visibilità presso il grande pubblico, insomma hanno ancora bisogno dell’editore. Ma se questo è, come è, il primo a credere poco nel prodotto, le vie sono chiuse. Non è un caso del resto – ha chiosato il collega – se le pochissime riviste cartacee del settore rimaste in vita vendono solo qualche decine di migliaia di copie ed esclusivamente grazie alla pubblicità che spesso il loro editore storna da altre testate di generi più remunerativi“.
Poi è arrivata la domanda di cui in apertura.
Siamo noi che abbiamo davvero sbagliato tutto oppure esistono soggetti, a noi ignoti, che padroneggiano la tecnologia giusta e costituiscono l’anello mancante di catena neoeditoriale basata sul web?
Siamo noi che non riusciamo a sganciarci da una mentalità e da modelli superati o sono i vati della rete che ancora non si sono concretamente confrontati con le difficoltà reali del giornalismo di viaggio professionistico?
Sarebbe bello se il dibattito interrottosi bruscamente a Dig.it continuasse qui.