L’eclettico, visionario musicista lascia un’eredità che, probabilmente, solo postuma rivelerà tutti i suoi frutti. Con lui se ne va un’altra delle straordinarie, sfuggenti figure d’un certo e trasversale sottobosco cantautorale senza cui nulla sarebbe com’è oggi. Anche se pochi lo sanno.

 

Soundtrack: Pearls Before Swine, “Another Time

 

Un po’ mi è mancato il tempo e un po’ il cuore.
Ma proprio non potevo far passare sotto silenzio la scomparsa di Tom Rapp, mancato l’11 febbraio.
Rapp, l’oscuro e un po’ dimenticato Rapp, amato dagli intenditori e ignorato dal grande pubblico, al quale era per forza di cose e di natura estraneo, ha svolto un ruolo fondamentale nella mia formazione musicale.
Ne fui folgorato nel 1978, quando misi le mani su una ristampa semillegale dell’altrimenti irreperile “Balaklava” (uscito dieci anni prima per la leggendaria ESP) dei Pearls Before Swine, la sua band. O meglio il volubile ensemble che ha ruotato per anni attorno alla sua figura. Ne seguirono infiniti, ulteriori inseguimenti discografici. Lenti, però, perchè sempre compiuti all’antica maniera: basandosi, cioè, solo sulla quasi nulla speranza di trovare i dischi tra gli scaffali impolverati di qualche negozio, senza ricorrere alla scorciatoia dei già allora nascenti e costosi cataloghi per corrispondenza destinati ai collezionisti.
Nell’attesa, ascoltavo e metabolizzavo profondamente ciò che avevo e che, in termini di qualità, non era poco: il citato “Balaklava”, mandato a memoria e tradotto mille volte, poi “One Nation Urderground“, il primo album del PBS, e “Familiar Songs“, disco a suo nome del 1972 inspiegabilmente facile (si fa per dire) da incrociare tra le bancarelle degli usati. Il resto l’ho affastellato pian piano, dopo.
C’era qualcosa nel vibrato della sua voce, dall’intonazione vagamente predicatoria, che riusciva a fare da mastice a un repertorio singolare e anarchico, dai toni ora intimi e ora beffardi, spesso costruito su sonorità inusuali e strumenti infrequenti, e giocato su inevitabili (direi perfino necessarie) influenze dylaniane. E tuttavia di un’intensità e di un lirismo del tutto propri, di chiara, ampia e colta impronta cantautorale.
Musicista schivo e per questo appunto vocato, si direbbe, a un seguito di culto (cui, va detto, la ricorrente iconografia da elfo spesso ai miei occhi non giovava), autore di testi visionari e intrisi di letture, Rapp potrebbe essere oggi classificato come appartenente al gran calderone dello psych-folk. Etichetta che però non renderebbe giustizia al suo genio eccentrico, al suo grande estro compositivo e a un’intensità espressiva che si rivela tuttora impermeabile all’usura del tempo.
Non passa giorno che non ringrazi di avere i suoi dischi.