L’azzeramento dei vertici della nota guida vinicola ha sollevato un polverone di commenti, spesso fuori misura. Ma può servire a mettere meglio a fuoco la figura del giornalista (enogastro e non) e la crisi di una professione.

Mi tengo per abitudine fuori dal chiacchiericcio di certi ambienti mistoprofessionali, perché le situazioni in cui mettono bocca troppe persone dagli interessi troppo confliggenti conducono solo a interminabili quanto sterili battibecchi tra fazioni. Il terreno di scontro prediletto sono i cosiddetti social.
Non mi piace nemmeno commentare i fatti personali o professionali dei singoli.
E quindi non mi sarei mai occupato nemmeno della notizia del giorno: il cambio della guardia – da taluni ritenuto un terremoto, da altri un banale avvicendamento, tanto per rendere un’idea della diametralità di certe posizioni – alla Guida Vini dell’Espresso. Cambio che in entrata e in uscita coinvolge alcuni colleghi, talvolta pure amici, che stimo sotto ogni punto di vista.
Non me ne sarei occupato se l’effluvio di opinioni e di confusione di ruoli che ne è conseguito, per quanto legittimo, non avesse superato la soglia del grottesco: lettori contro critici, critici contro produttori, commerciali contro militanti, militanti contro pr e quindi spesso contro se stessi, addetti ai lavori contro lettori e così via. Tutti più o meno all’oscuro di tutto, tranne che della notizia in sè, in un eterno ritorno più raccapricciante che nicciano.
Quello che mi spinge a parlarne è appunto il dibattito, diciamo pure in certi casi la rissa verbale, che la notizia ha innescato prima a proposito della professione di giornalista enogastronomico e poi di quella di giornalista tout court.
Su cui hanno predominato alcuni collaudati luoghi comuni: la guida non vendeva perchè non era “venduta“, l’editore cattivo ha fatto fuori i giornalisti buoni, è tutto normale perchè i ricambi avvengono periodicamente, i soliti giornalisti-giornalai, un contentino agli inserzionisti, l’immancabile io l’avevo detto, e così via.
La sensazione è che la stragrande maggioranza di chi commenta non abbia idea di come funzioni il mondo editoriale o che, se lo sa, si esprima solo in base alla propria convenienza o al proprio reticolo di amicizie, simpatie e antipatie.
Nessuno o quasi che si faccia domande più generali sul fatto che questa tabula rasa sia la premessa di cambiamenti o di cambi d’indirizzo ben più radicali di quelli già vagamente annunciati. Fatta eccezione, ci mancherebbe, per l’evocazione del ruolo fatal-salvifico dell’onnipotente e taumaturgica “Rete” (sì, qualcuno la scrive pure con la maiuscola) fatta dai soliti pasionarii del web.
Nessuna domanda sul profilo di chi dovrebbe essere destinato a prendere il posto, a parte i già noti Andrea Grignaffini e Antonio Paolini, degli smaliziati membri dello staff defenestrato. Qualcuno predica per un ricambio in chiave giovanilistica, dimenticando che (certamente non per colpa delle nuove, ma nemmeno delle vecchie generazioni di giornalisti) si fa fatica a intravedere all’orizzonte una nouvelle vague di critici dotati della preparazione, l’esperienza, l’equilibrio e la professionalità di chi è chiamato a contribuire a una delle più autorevoli guide italiane.
Ed eccoci all’acqua, sebbene si parli di vino: se nemmeno uno scossone violento a uno dei pilastri dell’informazione vinicola italiana è in grado di provocare nel sistema l’infiltrazione di chi, per ragioni anagrafiche, ne è ancora ai margini e potrebbe, anzi vorrebbe entrare, ciò non è il segnale che il sistema medesimo è impermeabile o che, fuori di esso, manca proprio la massa critica per avviare il principio osmotico?
Naturalmente è ancora presto per parlarne, ma nemmeno quello che succede nel resto del mondo giornalistico italiano è in tal senso rassicurante: non mi viene in mente nessun caso in cui, all’uscita di un peso mediomassimo da qualche ruolo chiave, abbia corrisposto a parità di mansioni e responsabilità un ingresso di più giovani, ma capaci e promettenti virgulti.
La sensazione generale è che la selezione sia verso il basso, guidata da criteri contrattuali e di costo.
Ma se il costo, che poi è lo stipendio del giornalista, non è tale da rendere lui indipendente e al di sopra delle tentazioni, di che stiamo parlando?
Forse stiamo parlando del dopolavorismo che ormai impera trasversalmente nell’informazione italiana, quella enogastronomica compresa. Un’informazione di cui solo chi ha le spalle larghe, i galloni e l’avviamento garantiti da una lunga militanza riesce ancora a campare. E un’informazione che, con queste premesse, neanche una sequenza di terremoti editoriali riuscirà a risollevare.
Perchè il male è alle radici e avvelena tutti i sopravvissuti, impedendo di entrare a chi è immune.
Salvate il giornalista-panda.