“MODELLI DI BUSINESS”. Lo ammetto, ci ho messo un po’ a riprendermi dalla nausea che mi è salita il 4 luglio scorso, alla conclusione degli Stati Generali dell’Editoria, e ho preferito far passare qualche giorno per buttare giù ulteriori riflessioni. Eccole, su uno dei punti più nauseogeni.
Gli editori hanno molteplici difetti, ma non li ho mai sentiti pontificare – se non in stretti termini economico/sindacali – sulla sostanza della professionalità dei giornalisti. Nè tantomeno sui “modelli di professionalità” a cui il giornalismo dovrebbe conformarsi.
Nel mondo dei giornalisti invece, e quindi anche durante la quinta e ultima manche degli Stati Generali dell’Editoria organizzati a Roma dal sottosegretario delegato Vito Crimi, si parla in continuazione di quale sarebbe o dovrebbe essere il “modello di business” editoriale in grado di consentire alla nostra professione di sopravvivere.
Riconosco di aver sempre fatto fatica a cogliere il senso di tutto questo perchè, secondo me, o il giornalista fa il giornalista, e quindi si occupa di scrivere, cercare notizie, verificarle, etc, oppure fa l’editore, cioè l’imprenditore, e allora deve effettivamente occuparsi di affari e di relativi modelli.
In altre parole, una cosa sono la comprensibile preoccupazione e l’interesse verso tutto ciò che può riguardare il proprio futuro lavorativo, un’altra il mestiere altrui.
Ma tant’è. E infatti, come detto, un’ora buona e forse più degli Stati Generali è stata impiegata (sprecata, secondo alcuni) a discettare sulla vexata quaestio del modello di business.
Sul terreno, tre schieramenti.
Quello dei teorici, che a tutto campo hanno illustrato lo stato dell’arte, cercando di individuare i possibili esempi da seguire. A rappresentarli, il prof. Marco Gambaro, docente di Economia e industria dei media all’Università di Milano.
Quello dei presunti innovatori (seduti tra i relatori), rappresentati dai colleghi Alberto Puliafito (direttore di “Slow News”) e Daniele Nalbone (responsabile web de “Il Paese Sera”), alfieri di un modello di giornalismo imprenditoriale web oriented che, in sostanza, prescinde dalla figura del giornalista-dipendente e propone un paradigma agile basato sul approfondimento e lavoro autonomo.
E infine quello dei tradizionalisti, dei fedeli cioè all’idea di giornali a redazione strutturata in conformità a ruoli, mansioni, rapporti ex ccnl, trasversalmente rappresentata dai copiosi sindacalisti presenti e dal grande assente nonchè convitato di pietra: l’arcigna e indignata (per il modello proposto da Puliafito e Nalbone e in generale per le posizioni di Crimi) Fnsi con Odg al guinzaglio.
Le conclusioni sono state, come prevedibile, della stessa ovvietà che anche il semplice buon senso avrebbe suggerito. Non esiste, si capisce, un “modello di business” buono per tutte le stagioni e per tutte le latitudini. Ogni contesto necessita del suo o dei suoi e, nelle more di questa ubiqua ricerca, è del tutto plausibile che la professione giornalistica tiri il calzino o muti radicalmente volto, profilo, statuto. Non è vero che il web è solo porcheria e roba veloce senza approfondimenti, per i quali (ha sostenuto Puliafito) esiste invece un interessante mercato. Se la gente cerca notizie in rete è perchè sono gratis e perchè si è perduta fiducia nel giornalismo e nei giornali tradizionali. Ci sono ancora questioni deontologiche su cui indagare (ad esempio, acuto punto proposto da Nalbone, la gestione delle pagine web delle testate giornalistiche e del copia-incolla dalla rete in cui esse spesso consistono). Quattro le criticità individuate invece nel sistema da Marco Gambaro: spesso c’è una diversa “idea di informazione” tra giornalisti e lettori, esiste la tendenza (soprattutto da parte della politica) a parlare con l’opinione pubblica (“target”) bypassando l’intermediazione giornalistica e quindi ad abbattere i confini tra informazione e propaganda, la disintermediazione consentita dal web permette al lettore di accedere direttamente alle fonti e quindi di diventare egli stesso produttore di informazione, conseguendone la tendenziale coincidenza in internet tra “ingrosso” e “dettaglio” dell’informazione.
Domanda finale: se questo è il quadro, ci saranno ancora i giornalisti?
Risposta: sì, se (sostiene sempre Gambaro) esisteranno redazioni in grado di coordinare e aggregare le informazioni.
Domanda correlata: come?
Risposta: sostenendo la conversione da un sistema editoriale basato sulla carta a un altro basato sul web, ad esempio orientando in tale direzione i corsi universitari (che negli Usa sono già tutti fully digital) e la deontologia professionale, nonchè creando piattaforme in cui la esternalizzazione non sia negativa ma virtuosa, cioè gestita da giornalisti.
Ecco, su tutti questi punti credo che Vito Crimi si aspettasse, come lo stesso titolo della sessione degli Stati Generali suggeriva (“Le proposte dei giornalisti per cambiare passo“), delle idee propositive.
Purtroppo non ho ascoltato nulla di tutto questo. E nemmeno io, onestamente, avrei avuto, per le ragioni dette in apertura, molto da offrire come contributo.
Ascoltare però le solite rimasticature e le consuete rivendicazioni sindacali di stampo ottocentesco, tutte protese alla difesa dell’intoccabile acquisito e niente affatto orientate al domani è stato, oltre che preoccupante, deprimente. Soprattutto per uno che, autonomo puro, del domani anche immediato deve preoccuparsi parecchio. E che da Montecitorio è uscito perfino più pessimista di prima.
Poi sono rientrato e ho scoperto che, mutatis mutandis, le mie ansie da giornalista ultracinquantenne erano le stesse di tanti colleghi trentenni.
E ora devo stabilire se ciò sia un bene o un male.