Miracoli della crisi: lavorando di meno scopri che, per produrre reddito, spendi anche meno. Insomma i conti sono in attivo, non in passivo. Segno che, “prima”, le cose non andavano bene e tutto si riduceva a una rincorsa in cui, come in una vasca, ci si affannava a versare acqua senza accorgersi che la perdita era maggiore del rabbocco. Morale: la “ricchezza” (si fa per dire, ovviamente) è la stessa, ma è migliore qualità della vita. Con un uso molto più razionale e naturale delle (proprie) risorse.

Dopo un paio d’anni buoni di crisi e di correlate geremiadi, senza dubbio sincere, ora ammetterlo costa un po’. Ma la verità va detta sempre. E quella di cui pian piano mi sto rendendo conto analizzando finalmente con calma il bilancio della mia vita professionale degli ultimi ventiquattro mesi è che, prima, si stava peggio di adesso.
Possibile? Sì, possibile. Conti alla mano, anche.
Certo, il lavoro è dimezzato e le entrate, se va bene, pure.
Eppure il conto economico non è in rosso. E se lo è, non lo è di molto. Dimezzati i km fatti in macchina (e quindi la benzina e l’usura del mezzo), dimezzati in viaggi in treno e le trasferte con annessi e connessi (bar, hotel, consumi vari), dimezzati gli acquisti di giornali, di tecnologia, di “aggiornamento”. Dimezzate le ore spese a fare cose inutili, a tenere o coltivare rapporti inutili, a sviluppare progetti inutili, a seguire eventi e conferenze stampa inutili, a visitare destinazioni inutili, ad alimentare conoscenze ed amicizie inutili. Quindi non solo molto più tempo “libero”, che già è parecchio, ma soprattutto tempo speso molto meglio e denaro speso molto meno.
L’aritmetica è impietosa e non lascia spazio a dubbi: se per guadagnare 30 devo spendere 20, allora tanto vale guadagnare 15 e spendere 5: il saldo sarà sempre 10. Vita più sobria e molto più tempo per godersi i sudati guadagni.
Tutto così semplice?
Ovviamente no. Ma il discorso vuole dimostrare come il “male”, che tutti noi freelance abbiamo finora teso ad attribuire alla cosiddetta “morsa della crisi” e alle sue dirette conseguenze, affondasse in realtà le sue radici molto più indietro nel tempo, all’epoca in cui la credibilità della libera professione giornalistica ha cominiciato a perdere pezzi, prestigio e remuneratività sotto i colpi della massificazione, delle ingerenze del marketing, dell’omolgazione dei progetti editoriali. Un’erosione lenta che ha livellato la domanda, appiattendo capacità e competenze, e di conseguenza ha abbassato tariffe e qualità. Solo che noi non ce ne siamo accorti, “drogati” da un sistema che ti illudeva di sopravvivere solo se ricavavi di più, producevi più articoli, allargavi il raggio delle tue competenze e delle tue collaborazioni. In realtà era un sistema che, tagliandoti l’erba sotto i piedi, creava le premesse per la catastrofe, puntualmentre avvenuta. Per il sistema però, più che per noi. Loro hanno perduto fatturati, pubblicità, stime di crescita e quindi la possibilità di effettuare investimenti, allargamenti, ingrandimenti. Ovvero le chances che, fatte le debite proporzioni, noi avevamo perso, in un arco temporale molto più lento, da un pezzo. Beata incoscienza, verrebbe da dire. Oppure chi si accontenta gode, non so.
Però è così.
Sia chiaro, non è tanto basta a consolarci, a farci tornare ottimisti, a restituire prospettive e sicurezze perdute. Ma la consapevolezza e la necessità, che essa implica, di ripensare se stessi a 360 gradi, anche sotto il profilo professionale, non può che essere salutare. Parola d’ordine: ridimensionarsi. Nelle aspettative, nelle previzioni, nelle aspirazioni. Fare uno o due passi indietro? Macchè. Disintossicarsi dalle illusioni, piuttosto. Riprendere contezza dei propri limiti oggettivi e soggettivi. Ripensarsi anche come categoria, riorganizzarsi. Tempo fa, su questo blog, scrissi (qui) dell’esigenza di trovare “nuove sintesi” tra le tipologie professionali e i loro modi di aggregarsi. Ora allargo il discorso: bisogna riposizionarsi anche come individui, come singoli professionisti. Imparare a fare i conti. Incredibile, ma forse prima davvero non li sapevamo fare. Tenere una più attenta contabilità del proprio mestiere. E chissà che, per una volta, le cose non cambino in meglio e per tutti.