“God knows why we dream” è il sesto album di Jason McNiff, cantautore britannico di composita formazione. Un disco delicatamente sospeso tra un’anima albionica, echi continentali e molte ascendenze d’oltreoceano.

Sono anni che mi arrovello chiedendomi (e chiedendo a lui) quali siano le reali ascendenze artistiche del britannico Jason McNiff, uno dei più brillanti cantautori usciti dalla scena internazionale degli ultimi anni.
Nemmeno l’ascolto del suo nuovo album, sesto della serie (“God Knows why we dream“, Tombola Records, 2014), mi aiuta però a risolvere quest’interrogativo. Nè un altro che potrebbe sembrare ozioso, ma puntualmente si ripresenta: come mai i dischi dell’albionico McNiff vengono classificati dalla critica sotto la voce “Americana” o, come il precedente e bellissimo “April Cruel“, sotto quella di “Alt-country“?
Le risposte potrebbero ovviamente essere molte e, con qualche probabilità, tutte vere.
Proviamo ad azzardarne alcune, cercandole proprio tra le righe di questa nuova uscita discografica che, lo anticipo, mi piace assai.
La dipendenza ispirativa di Jason da Dylan è confessa. E con essa tutta una serie di retaggi vocali e compositivi. Forte e confessa è anche l’influenza, in termini di puro approccio al songwriting, di Leonard Cohen, al quale il nostro dedica non a caso la terza traccia del disco (“Thanks Leonard“). Se siano consapevoli reminiscenze e echi involontari non so, ma faccio sempre una gran fatica a non riconoscere nelle inflessioni intimiste della voce e in certi approcci da balladeer le armonie, perfino il mood di statunitensi di grande spessore, da me amatissimi, come Elliott Murphy e Lucinda Williams. Quanto allo stile chitarristico, che Jason fa risalire a Mark Knopfler, potrei giurare che McNiff ha fatto buoni studi alla corte di vecchi maestri d’oltreoceano come Doc Watson, la scuola old time e il blues del Delta. Per non dire di retrogusti cajun e perfino quebecois.
Eppure “God knows why we dream” è un’opera di respiro intimamente europeo, che si autodefinisce “folk country”.
Esiste una voce di genere musicale assimilabile invece a “vecchia Europa”? Forse no. Già mi suona improbabile, ma molto calzante, qualcosa tipo “British roots” o “Britannica“, che renderebbero bene l’idea del bacino stilistico a cui il disco attinge. Affiorano tuttavia qua e là nell’opera – forse merito del magnifico violino narrativo della polacca Basia Bartz, uno dei pilastri dei Lone Malones – anche sonorità mitteleuropee, continentali, magiare, perfino gitane. Affiorano pure l’amore di Jason per gli uptempo, nonchè per gli arrangiamenti costituiti da fitte trame e tappeti percussivi che già avevano caratterizzato “April Cruel”: più sfumati però, grazie alla mano sobria e lineare del bassista-produttore John Nicholls.
Ne viene fuori un disco dai toni pastello, modernissimo e quasi sincretico, scritto in punta di penna, dove l’indole un po’ schiva di Jason trova piena espressione in una pacatezza sonora che non lesina brividi e nulla toglie nè alla profondità delle canzoni, nè all’intensità dei sentimenti che le ispirano. “God knows why we dream” si acquista a 10 sterline solo per corrispondenza, direttamente dal sito www.jasonmcniffandthelonemalones.com, e non lascia delusi.