A Olimpiadi quasi finite, è consolante vedere che cresce la generale consapevolezza della necessità di affrontare una volta per tutte il problema di cui le pugilatrici Imane Khelif e Lin Yu Ting sono state il detonatore.

 

Mettetela come volete, ma il fatto che alle Olimpiadi proprio le due pugili contestate per avere parametri ormonali superiori alla norma siano andate nelle rispettive finali e le abbiano vinte non può essere un caso: erano quelle fisicamente (parecchio) più forti e si è visto.

Lo hanno fatto, sia chiaro, nel rispetto delle regole del CIO e quindi onore a loro.

Il che non toglie però che quelle regole siano criticabili e che il sistema abbia mostrato un punto debole che non può più essere ignorato.

Lungi da me addentrarmi in questioni etico-scientifiche che non padroneggio e su cui si potrebbe comunque discutere. Nulla da dire nemmeno sulle giuste aspirazioni di due atlete a partecipare, e a vincere, in una competizione a cui si è legittimamente ammesse: perché, checchè se ne dica, nessuno gareggia per perdere o stare a guardare. Men che meno in uno sport come il pugilato ove, oltretutto, le prendi. Figuriamoci poi se ho voglia di interloquire sulla faccenda dei generi e dei relativi neotecnicismi, o sulle faide in corso tra enti e federazioni.

Qualcosa da dire l’avrei magari sulla strumentalizzazione politico-ideologica a cui, da ogni sponda, è stata sottoposta la vicenda. E anche sui suoi sottaciuti, ma molto palesi, risvolti economico-propagandistico-pubblicitari. Tuttavia, soprassiedo.

Ne faccio una questione solo sportiva.

Se i pugili, i lottatori, i canottieri e altri sono divisi per categorie di peso e possono combattere solo se rientrano nella medesima, il motivo è chiaro: occorre che ci sia una parità di condizioni, e quindi anche fisica, di partenza, perché a maggior peso corrisponde maggiore potenza ed ergo forza. Dopodichè, inter pares vinca il migliore, il più preparato, il più talentuoso. A nessuno però verrebbe in mente di mettere un peso massimo a boxare contro un peso medio, o un disabile contro un normodotato, o tantomeno un uomo contro una donna considerato che – almeno su questo, spero nessuno dubiti – i primi hanno per default un vigore fisico maggiore delle seconde.

Nel caso delle due ragazze, la maggior forza determinata, a parità di peso, dalla loro condizione naturale sanciva, al di là di qualsiasi apparenza esteriore, uno stato di superiorità che esondava dalla semplice stazza e dalla perizia tecnica, rendendo i combattimenti impari, come lo è qualunque combattimento tra atleti di categorie diverse.

Ecco: io credo che ora che è emerso in modo clamoroso, il punto – se non vogliamo chiamarlo un problema – debba essere affrontato. Non in termini ideologici (ho sentito parlare di “inclusione”: inclusione di che?), ma strettamente sportivi: cioè fissando parametri tanto netti quanto univoci e applicati in modo uniforme, direi universale. O introducendo nuove categorie, oltre a uomini/donne, che mettano su un piano di reale parità i contendenti all’interno di ogni disciplina. Forse introducendo la “cilindrata”, come nei motori, o gli handicap, come nell’ippica, o il decalage, come nell’atletica? Insomma, qualcosa che compensi le differenze. In fondo già la suddivisione dei pugili per categoria di peso è una sorta di handicap al contrario.

Quindi sportivamente parlando va bene tutto, purchè non si faccia più finta che atleti diversi debbano essere a tutti i costi uguali quando palesemente non lo sono, col risultato di falsare i risultati, allontanare la gente (e in particolare le donne, se messe in condizione di essere perdenti in partenza) dalla pratica sportiva, incrinare la credibilità del sistema e minare alla base il senso stesso dello sport.