No, non si può. Almeno in teoria. Purchè questa sia la volta buona: dicono che la Camera farà slittare ad hoc le elezioni dell’Ordine fissate in primavera. Ma il punto vero sarà dare concretezza ai cambiamenti.

Fusse che fusse la vorta bbona“, diceva Manfredi in una Canzonissima di millant’anni fa, prima ancora che nascesse l’Ordine dei Giornalisti.
Eppure, forse, ci siamo: la decrepita legge del 1963 che regolamenta la nostra professione potrebbe avere i mesi contati. Entro l’anno il Parlamento dovrebbe varare la sospiratissima riforma tante volte incagliatasi nel disinteresse dei politici e nelle manfrine di chi aveva interessi contrari a che il giornalismo italiano restasse una cosa seria e scivolasse invece sempre più, come da un po’ sta scivolando, nel limbo del dilettantismo.
Le linee-guida della riforma, ben riassunte qui da Giancarlo Ghirra, vanno nella direzione giusta, anzi obbligata: laurea (e corsi di laurea dedicati), abolizione della dicotomia pubblicisti/professionisti, esame per tutti, riduzione drastica dei consiglieri dell’OdG (che ovviamente sopravvive), regime transitorio fino “a esaurimento” per i pubblicisti di lungo corso, distinzione tra “ accesso alla professione“, riservato all’OdG, e l’esercizio della professione stessa, riservato agli attori economici, ovvero editori e sindacati.
Sì, al plurale, perchè l’instaurazione del pluralismo sindacale (che, sia chiaro, non spetta alla legge di riforma, ma ne è una sorta di indispensabile corollario) è una delle conditio sine qua non tanto per il salvataggio della nostra categoria, quanto per la garanzia della sua indipendenza dalle solite conventicole federali.
Un’altra condizione indispensabile è la serietà e la selettività di un esame che distingua il grano dalla lolla e gli asini dai cavalli giornalistici. Ne consegue il ruolo centrale della formazione e delle modalità per l’ottenimento del “lasciapassare” per l’esame, in un’epoca che ha visto la drammatica estinzione dei maestri e della pratica sul campo.
Un’altra ancora è la comprensione, da parte dei nuovi giornalisti “uniformati”, che l’accesso alla professione non rappresenta in alcun modo una garanzia di accesso al lavoro giornalistico, con buona pace dei sostenitori della teoria del “todos caballeros“.
Un’ulteriore condizione è la creazione di un consiglio nazionale che esprima le reali esigenze della categoria e non dei burattinai delle tessere, dei capibastone e delle longae manus della politica.
Obbiettivo finale, restituire il nostro giornalismo alla funzione fissata in questa scultorea definizione della Corte Costituzionale: “È competenza dei giornalisti la ricerca, l’elaborazione, il commento, la verifica delle notizie. Non sono di pertinenza giornalistica prestazioni attinenti alle informazioni di servizio, pubblicitarie e di contenuto commerciale“.
Chiaro, no? I tanti colleghi, spesso molto presunti e fin troppo trasversali si mettano l’animo in pace. O meglio, sia il contenuto della riforma a pacificarglielo.
Ultimo scoglio, e qui ti voglio (perdonate la rima), è quello dei compensi.
Anzi, dell’equo compenso. Inteso come minimo inderogabile garantito anche per l’accesso alla professione e per la permanenza nella medesima. Un minimo che va stabilito dall’OdG e il cui rispetto va monitorato dall’OdG attraverso la costante revisione dell’albo e norme semplici per la perdita della qualifica professionale. Un minimo, ancora, da intendersi come “minimo“, appunto, cioè come base a salire e non come “tariffa“, ancorchè variegata.
Lo capiranno gli innamorati ideologici del posto fisso, che vorrebbero in tutto equiparare la libera professione, compensi compresi, al lavoro dipendente? lo capiranno i mediocri che aspirerebbero a beneficiare dei vantaggi del freelancing senza accollarsene le fatiche e i rischi? Si rassegneranno i mestatori nel torbido abituati ai giochini di potere tra Ordine e sindacato unico?
I veri ostacoli della riforma saranno sempre questi.