La prorogomania tipicamente italiana contamina anche il (prorogato) Ordine, che dilatando i termini per la formazione obbligatoria e il ricongiungimento dilata pure i confini della tragicomicità professionale. Alla fine si salveranno tutti, eccetto noi.

 

Qualcuno ha già detto che c’era da aspettarselo. Io invece mi limitavo – con non troppa fiducia, lo ammetto – a sperare che non accadesse. Non foss’altro per un sussulto di dignità della categoria e degli organi che la guidano.
Diciamo pure che non è tutta colpa dell’OdG (la caduta del governo ha reso politicamente inevitabile lo slittamento della riforma e del rinnovo dei vertici). Ma non c’è dubbio che il semestre in più concesso ai pelandroni a corto di crediti formativi e alla tardiva ma comprensibile riluttanza dei “ricongiungendi” a ricongiungersi rappresentano una perfida via di mezzo tra la presa in giro e il ceffone ai danni dei tanti giornalisti “normali”.
Quelli, cioè, che hanno investito o perduto, secondo i diversi punti di vista, il loro tempo da un lato a seguire i corsi o dall’altro a studiare per l’esame che, nei loro sogni, avrebbe dovuto di colpo farli volare dal limbo scomodo dei pubblicisti al paradiso dei professionisti: un luogo incantato ove, secondo la vulgata artificiosamente ben inculcata nella testa dei meno esperti, le opportunità di impiego fioccherebbero. Uè, come fioccano! Infatti si è visto.
Per ambedue, insomma, il risveglio è stato amarissimo.
Ma per i primi, peggio: prorogare i termini per la formazione professionale obbligatoria è bastato infatti da solo a ridare fiato a tutte le critiche e le diffidenze, anche le più ingiuste, verso un adempimento rivelatosi da subito impopolarissimo sebbene, nella dolorosa realtà di un mestiere allo sbando, necessarissimo.
Intendiamoci: non rimpiango neppure una delle ore trascorse ad accumulare crediti più del necessario e ad ascoltare lezioni talvolta patetiche per povertà (di docenti e discenti), talaltra illuminanti per ricchezza di contenuti e informazioni. In ambo i casi è servito a capire meglio lo stato di salute, pessimo, del sistema. Ero e rimango infatti persuaso che per i giornalisti italiani, così spesso e anche professionalmente subacculturati, la FPC fosse, come lo è stata per me, un’opportunità faticosa ma imperdibile per elevarsi.
Inutile negare però che, dopo tanto tam tam e minacce disciplinari, la proroga abbia il sapore di un’italianità indigeribile. E non posso biasimare chi, ora, giustamente rumoreggia.
Oddio, non meno grave, anche se dimensionalmente meno ingombrante, è il caso del ricongiungimento, cioè dell’artificio di chiara impronta demagogico-elettorale grazie al quale anni fa si era data la possibilità ai pubblicisti “che svolgono effettivamente la professione” (cioè operano come professionisti di fatto) di accedere all’esame di stato.
Qui l’autogol è stato triplo.
Primo, si sono vendute illusioni a buon mercato sebbene l’evidenza quotidiana già allora dimostrasse il contrario di quanto prospettato, cioè che essere “professionisti”, nel senso di iscritti al corrispondente elenco, non agevola affatto il reperimento nè di assunzioni, nè di migliori compensi, nè di migliori opportunità di lavoro (o di opportunità e basta). Secondo, far passare al professionismo molti pubblicisti in difficoltà ha anzi aggravato la loro situazione, perchè lo status di professionista impone ai giornalisti limiti d’azione e obblighi che il pubblicismo consente invece di aggirare: e Dio solo sa quanto di tale elasticità professionale oggi ci sia bisogno in un settore che annaspa. Terzo: si sono fatti perdere tempo e denaro a persone che, illuse, hanno sbattuto contro lo sbarramento di un esame meno facile di come annunciato ed evidentemente ostico da superare. Al punto che, alla fine, molti hanno mangiato la foglia e hanno rinunciato a sostenerlo. Da qui la proroga ordinistica, nel disperato tentativo di non dover dare ragione alle Cassandre come me che, da subito, avevano annunciato l’inutilità e il fallimento dell’operazione.
Ed ora eccoci qui, con le grandi manovre elettoral-giornalistiche in corso da tempo, la tragicomica mano sindacale che mira a prendersi tutto il malloppo ordinistico (se prima eravamo fritti, domani saremo mangiati, digeriti ed espulsi), Luca Lotti che diventa ministro allo sport ma mantiene, ahinoi, la delega all’editoria, informazione e pubblicità sono ormai così mescolate che le nuove generazioni di colleghi fanno fatica a cogliere la differenza.
Stendo un velo pietosissimo sulle prospettive previdenziali e vi chiedo: sicuri che il 2017 sarà per noi migliore del 2016?