La moltiplicazione dei pani, dei pesci e dei tipi di giornalisti: semiseria ma sincera digressione domenicale, suggerita da un collega spiritoso, su una parcellizzazione che supera ogni fantasia: io ho contato 22 specie diverse, di cui alcune “aliene”. E voi?

In principio era il grido che echeggiava nelle solenni sale della professione, dalla bocca di maestri d’antico pelo: “Siamo tutti giornalisti!“. Nel senso che, tutti noi, giornalisti lo siamo in modo uguale.
Poi vennero i sacri testi, insomma l’abbaco professionale, che in base alla legge precisava: tutti uguali sì, ma suddivisi in professionisti e in pubblicisti.
Andando più a fondo, si scopriva che esistevano anche i praticanti e gli iscritti all’elenco speciale.
Era però ancora un mondo dorato, semplice, con i professionisti in redazione e i pubblicisti a scrivere saltuariamente, vivendo d’altro.
Il meccanismo si rompe quando, per essere assunti, prima bisogna “imparare” (ma senza contratto) sul campo. Nascono così i collaboratori più o meno frequenti, più o meno fissi, ma via via sempre meno dilettanti e sempre più professionali. Annotate bene il termine, tornerà utile poi.
Si scopre allora, sorpresa, che alcuni di questi collaboratori sono più bravi e veloci dei loro colleghi assunti e il sistema ne approfitta subito, agitando lo specchietto dell’assunzione, per tenerli anni in naftalina nell’attesa dell’agognato arruolamento.
Nel frattempo, però, la specie si evolve. A chi aspira al posto fisso si affiancano da un lato quelli che si accorgono di quanto possa essere utile e piacevole essere giornalisti ogni tanto, ma continuando a fare anche un lavoro “serio” e dall’altro quelli che, conti alla mano, capiscono che si può campare anche rimanendo “esterni”: sono nati i freelance.
E qui si aprono le cateratte.
Ex lege, all’epoca, i freelance nemmeno se iperprofessionisti potevano accedere al praticantato e quindi all’esame di stato, quindi l’Fnsi introdusse nel proprio statuto, per proteggerli (peccato si siano fermati lì), la figura dei “professionali“.
Da allora, è stata una progressione geometrica, una proliferazione conigliesca: liberi professionisti con partita iva ma pubblicisti, liberi professionisti con partita iva ma professionisti, liberi professionisti con inpgi 2 e partita iva, liberi professionisti con partita iva ma senza inpgi 2, abusivi di fatto secondo le declinazioni di cui sopra, abusivi e basta, cococo, art.36, precari nelle varie e innumerevoli accezioni (titolari di un contratto a termine, false partite iva, aspiranti a vario titolo), pensionati collaboratori ma con la scrivania in redazione, pensionati e collaboratori e basta, non-giornalisti che però scrivono abitualmente come se lo fossero, ricongiungendi, pubblicisti-pubblicisti.
Ultimi nati proprio in questi giorni, nel fiorire di tipologizzazione creativa che contraddistingue la fase di estremo occaso della professione e fotografa alla perfezione il caos da basso impero che la contraddistingue, due gioielli: gli “sporadici” e gli “economicamente dipendenti” (per saperne di più, qui).
C’è chi pensa che lambiccarsi sull’oscuro significato delle due neogiornalistoplasie sia un vacuo esercizio di ricerca del sesso degli angeli.
Sarà.
A me sembra invece il sintomo del bisogno compulsivo di ritrovare la via di casa prima che faccia buio, anche se i lupi cattivi che vorrebbero farti perdere nel bosco sono tanti e ipocriti.