Dopo la stagione del “tutti giornalisti” e quella, in corso, dei “giornalisti senza giornali”, si profila la soluzione finale: “giornalisti che non fanno i giornalisti”. La domanda è: cambiando mestiere, si resta giornalisti lo stesso? Si attendono risposte dai lettori.

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Di giornalisti senza una lira, perché – incomprensibilmente per chi scrive – accettano di lavorare sottopagati o senza essere pagati tout court (i pagamenti simbolici è ovvio non contano) sono sempre esistiti. Non è una grande novità.
Parliamo, naturalmente, non dei cosiddetti contrattualizzati, il cui stipendio è per forza di cose garantito da un contratto di lavoro dipendente (finchè c’è, cosa oggi comunque sempre più rara), ma dell’amplissimo arcipelago di tutti gli altri (esterni, freelance, collaboratori, etc), che erano e sono tanti.
Ebbene: per quanto, sempre a parere del sottoscritto, in qualsiasi professione uno degli elementi costitutivi e pertanto indispensabili della stessa sia la capacità di produzione di un reddito (intendendo per tale un compenso congruo o comunque sufficiente all’autosostentamento), l’esistenza di giornalisti senza reddito era ed è un’evidenza innegabile.
In costoro, pur occasionalmente o periodicamente privi del requisito della redditualità, a salvaguardare la sussistenza della qualifica giornalistica rimane e rimaneva finora l’esistenza fisica delle testate giornalistiche (sia cartacee che web, tanto il punto rimane): cioè di una piattaforma su cui, almeno in teoria e potenzialmente, l’attività giornalistica poteva essere svolta.
Ma adesso che i giornali nel senso sopra indicato scompaiono e quindi i rapporti di collaborazione con i medesimi, anche potenziali o quiescenti, si interrompono, che succede? Voglio dire: se mi manca non solo la remunerazione, ma perfino la possibilità materiale di svolgere il mio lavoro, addirittura gratis, per cessazione fisica del datore dello stesso (e cioè si dissolve il mio rapporto con le redazioni) e io di fatto mi devo trovare un’altra occupazione, resto giornalista o no?

In termini formali la risposta è ovvia: certo che lo resto.

Ma qui bisogna intenderci: io non parlo del mantenimento della patacca, dei galloni, insomma del titolo da mettere sulla carta intestata, comprovato dall’iscrizione a un ordine professionale e dal rilascio del famoso “tesserino” a cui incomprensibilmente una massa di ingenui tuttora aspira. Quello è intoccabile e, ahimè, inutile.
La questione è più pratica e meno futile: posso legittimamente dire che “sono giornalista” (accollandomi così gli obblighi implicitamente attinenti a tale qualifica) se non esercito né soprattutto non posso esercitare in concreto la professione? Sono tenuto al rispetto della deontologia e al mantenimento del decoro della stessa? Permangono cioè gli obblighi di obbiettività, ricerca della verità, verifica delle fonti?
Oppure, al contrario, siccome sono in ogni senso “fuori” dai giochi, posso allegramente calpestare le norme a cui prima obbedivo, cavalcare l’ambiguità tra informazione e pubblicità, prestare i miei servigi alla propaganda e al commercio, in definitiva posso “usare” il (residuo) prestigio e la credibilità derivanti dal mio status professionale per svolgere altri lavori altrimenti incompatibili con quello di giornalista?

L’interrogativo, come dimostrano l’esperienza e la vita quotidiana, è assai meno teorico e peregrino di quanto possa sembrare. Conosco decine di “giornalisti” che in realtà fanno altro: sindacalisti (non nell’Fnsi), pubblicitari, pr, negozianti, impiegati, imprenditori, etc. Il tutto senza avere nessuna mansione nemmeno apparentemente attinenze alla loro qualifica. Si tratta di occupazioni onorevoli e legittime, sia chiaro.

Ma, se ci si riflette un attimo, i dubbi vengono. E’ obbligato ai doveri imposti dalla professione forense chi è avvocato di nome ma non di fatto? E’ obbligato al rispetto del giuramento di Ippocrate il medico che gestisce un negozio di fiori? D’istinto, mi verrebbe da dire di sì. E allora il giornalista che fa il ristoratore è tenuto ad esempio a dire al cliente tutta la verità sulla freschezza del pesce o la bontà del vino, esattamente come dovrebbe fare scrivendo un articolo di cronaca?
E che succede quando, nell’esercizio della sua attività non giornalistica, il giornalista mette in campo comportamenti che possono nuocere all’onorabilità della categoria a cui appartiene?
In definitiva: si possono cumulare i vantaggi della qualifica con quelli di mestieri incompatibili con la stessa?

Chi se la sente di abbozzare una risposta all’inquietante e impopolarissimo (perché da noi i benefici derivanti dalle patacche sono come i diritti acquisiti: si pensa che non si debbano mai toccare) quesito?