E’ morto ieri a novant’anni, dopo una vita da romanzo e un ruolo di primo piano nella storia del r’n’r, tra riff di chitarra e sbarre di prigione. Eppure, nell’annunciarne la scomparsa, anche il suo sito parla di addio al marito, al padre, al nonno e al bisnonno. Anche Berry era un uomo come tutti.
Soundtrack: “Roll over Beethoven“, Chuck Berry.
Se fossi il direttore di un giornale musicale, anzi se fossi un direttore tout court, terrei un elenco aggiornato di glorie vecchie o malmesse di salute del rock and roll e non solo e sguinzaglierei i miei migliori giornalisti, o me stesso, a vergare i più elzevireggianti coccodrilli.
In gergo giornalistico il “coccodrillo” (in allusione alle lacrime dello stesso) è un pezzo precotto, scritto ad hoc con grande anticipo per celebrare con solennità la morte di qualcuno famoso.
L’anagrafe, infatti, non lascia scampo. E quando un genere musicale come appunto il rock and roll è così adulto da essere pure diventato quasi vecchio (ormai siamo alle soglie dell’età pensionabile), ciò significa che i suoi eroi più antichi ancora in vita devono per forza aver almeno superato gli 80 anni. Insomma, sono a rischio per natura.
Chuck Berry infatti, morto ieri, ne aveva 90.
Non ho ancora fatto il conto di quanti inevitabili e in fondo giusti coccodrilli leggeremo adesso su di lui, che del r’n’r è stato indiscutibilmente uno degli inventori e maestri.
Non sto neppure a scriverne uno io, che pure l’ho amato assai per quella musica affilata come il suo viso e sfrontata come il suo sguardo. Ma sto già stufandomi della questione che – ben lungi dal tentare un bilancio critico della sua carriera e del suo contributo di musicista – l’ancora fresca scomparsa sta già generando nel grande bar sport globale della rete: dividendo il mondo tra il partito di quelli che dicono “oh no, anche Berry, strappiamoci i capelli, dopo l’annus horribilis 2016 adesso anche il 2017 si allinea, etc etc” e quelli che dicono “sì, va bene, dispiace, ma in fondo era vecchio, il suo l’aveva detto da un pezzo e musicalmente taceva da decenni“.
A me, pensare che un artista novantenne, o anche settantenne, o perfino cinquantenne possano o debbano essere sempre e comunque immaginati “arrabbiati” e quindi artisticamente prolifici come e nel modo in cui lo erano da ventenni, fa abbastanza ridere. Così come detesto quella forma di provincialismo critico che per tutta la vita giudica i musicisti per ciò che furono e non anche per ciò che sono o sono diventati nella lunga vita successiva agli anni d’oro. E’ la cronica incapacità di storicizzare l’arte e di saperla leggere in termini evolutivi, anzichè attualizzandola sempre per adattarla a contesti fatalmente cambiati col trascorrere del tempo.
Quindi Chuck Berry è stato un grande, un grandissimo, che ha dato un contributo fondamentale al rock and roll. Poi, come tutti, è pian piano invecchiato, un po’ forse anche musicalmente, anche se il suo stile di vita, i processi, le donne, le grane, le tournee sembravano dimostrare i contrario. Lasciamo dunque che la sua vita rimanga leggendaria, raccontiamo gli aneddoti di quando, sebbene ormai ultrasessantenne, metteva le telecamere nascoste nei bagni delle donne nel suo ristorante, godiamoci i filmati in b/n del suo duck walk, leggiamoci le interviste ai più celebri chitarristi che giustamente indicano il suo stile tra le loro massime influenze, riascoltiamoci i dischi degli anni migliori e pure quelli degli anni successivi, che non furono poi tanto male.
Ma poi cerchiamo di collocare Berry al giusto posto nell’albero genealogico del rock, evitando di farne il solito santino catarifrangente da appiccicare all’ape senza aver capito nulla o quasi della sua musica.
Come dite, uso troppo spesso l’esempio del catrifrangente sull’ape? Sì, è vero. Secondo me però è l’esempio perfetto di come offendere un artista pensando di celebrarlo.
Ed ora, buoni elzerviri. Anzi, coccodrilli.