Devo lottare tra il dispiacere per la scomparsa dei due musicisti e la nausea per i luoghi comuni con cui l’infotainment li sta celebrando senza sapere di che parla: dal “camaleonte del rock” al “re del soul”.
Soundtrack 1: “Rebel rebel“, David Bowie
Soundtrack 2: “Trying to live my life without you“, Otis Clay
Soundtrack 3: “ That’s How It Is“, Otis Clay
In quarantott’ore abbiamo fatto bingo.
L’8/1 è morto Otis Clay, uno dei grandi del r&b, e ieri è morto David Bowie, che non ha bisogno di presentazioni.
Personaggi e musicisti più lontani tra loro non ne potrebbero esistere.
Come sempre, mi trovo a ricordarli riannodando i fili della mia discoteca personale. Processo inevitabile. E anche in questo caso i due si rivelano figure lontanissime.
Bowie lo conobbi a tredici anni e mezzo, primavera del ’74: sentivo gli Sweet (qui: abbiamo tutti qualcosa da nascondere) e poi misero “Rebel rebel“, con uno dei riff secondo me più indimenticabili della storia del rock. Altra merce. Il suo primo LP lo ebbi invece nel 1976 e porta il numero 28 della mia collezione. Lo presi, anzi per la verità letteralmente lo rubai, in un grande magazzino a Worthing, West Sussex, assieme a “Presence” dei Led Zeppelin” e a “Illegal Stills” di Steven Stills. Ovviamente era “Ziggy Stardust and the Spiders of Mars“: tutte le enciclopedie lo inserivano tra i 100 dischi da possedere.
Ero troppo giovane per essere stato coinvolto nella fase glam della sua carriera, quindi l’ho approfondito a ritroso. Ovviamente ho vissuto la fase soul, quella berlinese di “Heroes“, ricordo di aver presentato a Radio Luna, con Ernesto De Pascale, l’interlocutorio “Scary Monsters” e di averne poi accompagnato l’ascesa di superstar del pop e del cinema. Non ne sono mai stato un fan, ma ho sempre avuto rispetto per la sua capacità di galleggiare sui decenni e di lasciare su di loro, in qualche modo, un segno musicale non solo apparente. Artista non comune, comunque pietra miliare.
Otis Clay l’ho conosciuto invece a metà degli anni ’80, altra epoca ma giorni musicalmente eroici pure quelli, quelli dell’apertura dei terzi e dei quarti orizzonti. Il suo “Live in Japan” occupa all’incirca il numero duemila della mia raccolta e fu una scoperta folgorante. Il suo primo, classico lp del 1972, “Trying to live my life without you“, l’ho avuto tempo dopo. Credo di avere anche altro, ma ora non ricordo. Un interprete ruggente e struggente rimasto solo sullo sfondo del grande successo, ma un monumento nel suo genere, certamente ignoto ai megapalcoscenici, alla tv e al global stardom system. Si era esibito qualche anno fa, con la voce un po’ incrinata mi dice chi c’era, al mai troppo celebrato Porretta Soul Festival, ma l’avevo mancato. Oggi me ne rammarico.
Ma cerco di non pensarci e soprattutto di non leggere i titoli dei giornali.