Spacciato per simbolo di libertà e praticità, il trolley è l’emblema di tempi in cui massificazione e overtourism hanno abbrutito ogni logica e stile, facendo rimpiangere perfino il taxi (con disclaimer finale)

 

Una delle più geniali invenzioni dell’umanità è la ruota. E una delle più geniali dell’umanità recente è senza dubbio il trolley, cioè la valigia con le ruote, che ha oggettivamente rivoluzionato l’idea stessa di bagaglio e, di conseguenza, il modo di viaggiare.

Si cominciò col carrello pieghevole su cui legare il valigione. Poi arrivò la valigia con le due ruotine e il manico integrati. Si è proseguito con le ruotine a 360°, che rendevano il tutto più maneggevole e scorrevole. Si è continuato raddoppiando le ruotine: così la valigia sta in piedi da sola e può essere sospinta anzichè solo trascinata.

Non escludo che presto gli ex fardelli vengano dotati di motori a batteria, ricaricabili come i cellulari, tali da rendere i malloppi semoventi, magari trasformandoli, in un futuro non troppo lontano, in piccoli mezzi di trasporto con valigia incorporata o viceversa. Più in là ancora, hai visto mai, il trolley motorizzato potrebbe seguirti via gps, come i droni, senza nemmeno bisogno di essere guidato a mano.

Difficile del resto dire se il trolley sia stata una delle concause o uno dei coeffetti del boom del turismo di massa e dei voli low cost, ma ne è comunque il simbolo.

Un simbolo spesso tristissimo, però.

Ieri, ai 33° di Firenze, i marciapiedi erano pieni di pedoni con valigia a traino. Giapponesi più bassi del loro bagaglio, americani scosciati e in ciabatte che trascinavano enormi bauli ruotati sui lastricati di pietra serena, con sobbalzi paurosi e chiasso infernale, intralciando il cammino dei normali passanti sul marciapiede, quando delle stesse auto se il trascinamento avveniva, come spesso accade, direttamente sulla carreggiata.

Non parliamo del faticoso e pericoloso trasporto delle valigie a ruote su e giù per scale, scalinate, gradoni da parte di gente sudatissima che non guarda dove mette i piedi perchè tiene gli occhi fissi sul google maps del cellulare, bramosa di raggiungere l’agognata pensione “nel cuore del centro storico“, ma in un vicolo dissestato e al sesto piano senza ascensore, prenotata su booking con sconti fenomenali.

Prendere un taxi? Nemmeno a parlarne. I motivi sono oscuri. Un’ora di camminata massacrante sotto il sole implacabile, con vesciche e panni da lavare, ha un costo ben più elevato di una corsa a pagamento, senza contare il tempo risparmiato e il benessere guadagnato.

Ora: non vorrei esagerare, ma mi pare che l’overtourism (mica vi sarete illusi che la parentesi del covid avesse davvero rallentato la piaga delle transumanze turistiche, eh?) e il costante intaso pedonale da trolley viaggino sul serio di pari passo e costituiscano problemi speculari. Imbarbarimento dei costumi compreso.

Intendiamoci, non è che vagheggi un ritorno alle pile di valigioni in pelle che riempivano i carrelli e piegavano per sempre le gambe di giovani facchini destinati a fare quel mestiere per tutta la vita. Nè al modo di viaggiare di mia nonna, alla quale il bagaglio veniva preparato (oltre che trasportato, si capisce) da altri e che, in apparenza, a lei serviva solo come guardaroba e come supporto per appiccicare le etichette dei grand hotel frequentati in vacanza, quando il bon ton prevedeva quattro cambi d’abito al giorno.

Ma questa gente ormai tutta uguale, che frequenta aeroporti, stazioni ed alberghi, anche di lusso, trascinando some lucenti, dalle dimensioni talvolta imbarazzanti, a me mette un’estrema tristezza. E non mi pare un traguardo raggiunto, bensì una nuova servitù tanto tenacemente quanto scioccamente perseguita.

Nel nome di un appiattimento dei costumi camuffato da praticità, siamo diventati facchini di noi stessi. Senza distinzione di sesso, età, ceto, cultura, professione, luogo, destinazione. Si va in San Pietro come a un trekking e al Louvre come a Dehli. Osserviamo i luoghi in cui abbiamo profumatamente pagato per trovarci attraverso lo schermo dello smartphone, perchè siamo troppo impegnati a fare foto banalissime da postare su Instagram per guardare dal vero paesaggi e monumenti. Sempre con le valigie al seguito, si capisce. Anche a ristorante, dove prima o poi dovranno attrezzare spazi ad hoc ove ricoverare il bagaglio rotabile degli avventori. I quali, per non avere impicci, si autocostringono a vestirsi da facchini: brache corte, infradito, ascelle pezzate, scarpacce da sport estremo.

Del resto direi che trascinare un trolley per chilometri di acciottolato urbano è uno sport a tutti gli effetti.

 

PS/disclaimer: con mia grande sorpresa questo post, che avevo scritto in leggerezza giusto per rendere partecipi di una constatazione dopo mezza surreale giornata trascorsa nel centro storico di Firenze, è stato utilizzato su alcune pagine social come argomento ideologico, generando interpretazioni fantasiose se non strumentali. Eppure a me il senso pareva solare: trascinare per km un trolley su un fondo che rende il trascinamento una maratona equivale a ostinarsi a trasportare a mano il trolley stesso laddove potrebbe benissimo essere fatto scorrere sulle ruote, che servono proprio a quello. Dopodichè, ognuno si faccia del male come vuole. Ma l’idea che del trolley non si possa fare a meno a prescindere, anche dove è inusabile, rimane ridicola.