Il battage è partito oggi dal Corriere della Sera (qui): manca un mese alla maturità e a causa delle ampie insufficienze il 38% degli alunni rischia di non essere ammesso. Con la prospettiva, avverte il quotidiano, di una falcidia o della necessità di un consistente “aiutino” da parte dei docenti. Come se l’effettivo livello della preparazione fosse espresso dai voti e nelle nostre scuole non dilagasse una comprovata ignoranza.
Generalizzare, si dice, è sempre sbagliato. Descrivere gli studenti italiani genericamente ignoranti lo è quindi altrettanto. Così com’è ingiusto, fa osservare qualcuno, scaricare sui ragazzi l’intera responsabilità di tale impreparazione, senza dare le colpe anche ai docenti, alla scuola “che non funziona” e così via, su su fino alla sempre colpevolissima “società”. La quale, essendo tutti noi, non paga mai e quindi tutto resta come prima, fra le nebbie della demagogia.
Ci voleva la vituperata ministra Gelmini per smuovere le limacciose acque e stabilire, l’anno scorso (perciò con effetti su questa annata scolastica), che per essere ammessi all’esame non basta avere “la media del 6”, ma ci vuole il 6 in ogni materia. La differenza, formalmente e in apparenza sostanzialmente, è parecchia: prima, a far media servivano anche i voti non “pesanti” (ai miei tempi, ad esempio, condotta e religione), mentre ora, con nuovo regime, un 4 in latino non si rimedia più con un 8 in matematica. Risultato: da una percentuale del 5,8% di studenti non ammessi (cioè 28mila ragazzi) si passerebbe ad un 38% (cioè oltre 130mila allievi). Una strage, insomma. Almeno secondo il Corriere, che ha ricavato i dati attraverso una “simulazione” basata sui risultati di un liceo milanese. Unica speranza (o “alternativa”): un “aiutino” dei professori. Il che, tradotto in termini più brutali, vorrebbe dire un ritorno al “6 politico” di sessantottiana memoria.
Da qui i patemi, gli allarmi, le proteste, i ricatti morali da un lato e i catastrofismi dall’altro. Con l’aggravante di una “classe genitoriale” (passatemi il termine) che, spesso ignorante come i figli e quindi inconsapevole della propria e della loro incultura, sta aprioristicamente e inconcepibilmente dalla parte dei pargoli, futuri bamboccioni. E come se il punto non fosse dotare le nuove generazioni di un livello accettabile di cultura generale, poi indispensabile (checchè ne dicano i sociologi) nei tornanti della vita, ma non rovinare le vacanze a qualcuno o appiattirsi sulla follia di un egualitarismo al ribasso (“l’importante è che mio figlio non sia più ignorante degli altri, basta che lo sia come gli altri, per partire alla pari)”.
La verità è che invece i ragazzi di oggi, sui quali ricade appunto il peso di un’ignoranza di seconda generazione, in media non sanno un tubo. Non c’è bisogno di evocare le perle (probabilmente taroccate) de “La pupa e il secchione”, sarebbe sufficiente fare qualche test in una scuola superiore italiana per capire la scarsità delle conoscenze e soprattutto l’incapacità degli alunni di collocare in un minimo quadro organico le poche nozioni conosciute. Basterebbe leggere i temi, ascoltare le conversazioni, verificare la capacità di mettere in relazione fatti, nomi, eventi, notizie.
Sia chiaro (ma l’ho già detto sopra): ciò non significa che individualmente non esistano fior di studenti, bensì che mediamente i maturandi sono sotto la soglia di una sufficienza oggettiva di preparazione. Che non è solo quella sancita dai voti, ma dalla sostanza. In pratica, spesso, non sono “maturi”. Si portano dietro carenze vertiginose, superficialità di ritorno, abitudine a non mettersi alla prova e/o ad accollarsi le conseguenze delle proprie azioni (studentesche, in questo caso), come spesso del resto avallato e comprovato da alcuni dei loro stessi insegnanti.
Ma allora cos’è davvero importante? Non è invertire la tendenza, alzare progressivamente le soglie, ridare riconoscimento alle capacità e spinta all’intelletto, disincentivare il velleitarismo scolastico, facilitare con la prevenzione le scelte di studio e professionali dei giovani, ridare dignità alla classe dei professori e, in fondo, anche a quella degli studenti?
Se è così, ben vengano le “stragi”. Col tempo si imparerà che non ci sarà bisogno di fare stragi alla maturità, se si sarà provveduto prima, con test più attendibili, anno dopo anno, a selezionare i ragazzi, a bocciare i meno capaci, a non portare sempre tutti avanti, come se gli scogli non dovessero mai arrivare: a scuola come nella vita.
Il solito discorso politicamente scorretto, ma che in tanti, in cuor loro, sanno di condividere e di dover dolorosamente ammettere. Anche per sè.