La reclame le indorava come fatte a mano, indistruttibili, confortevoli. Era tutto vero. Elegia in diretta delle “Antiche Pancani”, ora che ho saputo che non le fabbricano più.
Vecchio scarpone,
quanto tempo è passato, quanti ricordi fai rivivere, tu. Forse potresti, se volesse il passato, camminare ancor.
Ma in effetti cammini, eccome se cammini. Anzi, non riesco proprio a distruggerti, cara “antica Pancani”.
Ricordo ancora il momento che ti comprai, anche se non rammento più quando. Cinque, sei anni fa? Non so. Mi convinsero, però, due cose. La prima, il fatto che il negoziante che ti raccomandava caldamente ricorse a quest’argomento: “Le usano gli elettricisti per salire sui tetti”. Referenza formidabile, lo riconosco. La seconda, il fatto che sulla tua scatola troneggia, chissà perché, la scritta “Salgari”. Retaggio da reclame ottocentesca, non c’è dubbio. Ma vuoi mettere il fascino che esercita su un viaggiatore (o ex tale) come me? Irresistibile.
Insomma, ti comprai. E mai acquisto fu più azzeccato. Mi hai accompagnato in città e in campagna, in estate e in inverno, in montagna e in pianura, col freddo e col caldo. Nei luoghi più sperduti del mondo. Mai un tradimento, mai un cedimento.
Incredulo, a un certo punto mi misi d’impegno per demolirti. Davvero. Niente cera per mesi, inzuppata senza precauzioni, incrostata del peggiore e corrosivo fango che esista, portata per giorni, senza requie, contro ogni norma. Principiai anche a covare il proposito, scellerato, di guardarti come una scarpa ormai usurata, da relegare tra quelle dismesse.
Eppure non c’è mai stato un minuto in cui, poi, ho rinunciato a te. E che tu non sia tornata a rifulgere dopo una banale spazzolata.
Prendi adesso, ad esempio.
Aeroporto arabo. Accanto a me siede un tipo con un paio di orride Nike da passeggio, una via di mezzo tra le sneakers e le babbucce da mercatino. Rosse. Spiccano sulla grisaglia anonima di questo pavimento da terminal. Di fronte ho un uomo d’affari sulla sessantina andante. Mocassino estivo, elegante, costoso. Roba fragile, magari pure scomodo. E se piove, addio: sono morti, accartocciati come foglie in autunno.
Vuoi mettere con la tua meravigliosa confortevolezza quattrostagioni e il senso di solida tenuta che mi dai tu? Sostegno e benessere, familiarità e eleganza. Un’eleganza campagnola un po’ stropicciata, sobria, disincantata, rassicurante.
Mica l’infradito da spiaggia che porta una cicciona sedutasi al mio fianco poco fa. Fa il paio col pantalone a pinocchietto del marito, buzza e triplo mento prominenti, romanzo da due soldi in mano, bottiglia di Coca Cola vicino. Sembrano europei, ma si vestono da americani.
Mentre osservo il mondo ad altezza scarpa, da qualche parte di questo aeroporto immerso in una triste penombra trilla un registratore di cassa. Chissà, forse batte lo scontrino esentasse di qualche chiassoso stivale alla moda per gente tramortita dal viaggio, dalle pizze da autogrill e birre dozzinali bevute nel bicchiere di plastica.
Caro vecchio scarpone, qui si consuma l’abisso tra te (e non tra me) e loro. La tua robusta levità s’accoppia col senso di sicurezza che infondi. Dai manifesti che incombono attorno, anche Alberto Sordi, Anna Magnani e Anita Ekberg sembrano ammirarti.
Sarà perché pure loro sono simboli di uno stile di vita trascorso?
Magari è così. Ma tu e io ci troviamo bene in questo comfort antico, in cui le scarpe – anche senza maggiordomi a collaudarle – prendono giorno dopo giorno pieghe simili a rughe, testimonianza dei tanti passi e dei tanti luoghi calpestati.
Arriva l’annuncio molesto. E’ tempo di andare.
Long may you run, vecchia Pancani.