Arriva l’anno nuovo e il premier non ha ancora risposto al presidente dell’OdG a proposito della legge sull’equo compenso. Strano? No. Nè che la pubblicazione sulla G.U. latiti. Nè che i giornali non ne parlino. Troppo poca volontà politica da un lato, troppe inutili aspettative dall’altro, troppa inconsapevolezza da un altro ancora.
La domanda che il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino, ha posto al presidente del Consiglio il 23 scorso, in occasione della conferenza stampa di fine anno, pende ancora nell’aria. Sospesa come una foglia al vento e minacciosa come una spada di Damocle.
Sintetizzo: “Signor Presidente – ha detto Iacopino – ho un dovere che voglio onorare: dare voce qui, oggi, a chi non la ha quasi mai. È nostro dovere fornire ai cittadini una informazione completa. Si può farlo quando si viene retribuiti con tre euro per articolo? Non si può signor presidente. Ora abbiamo una legge, che noi chiamiamo dell’equo compenso, approvata il 6 dicembre. C’è voluta una legge nel 2012 per stabilire che la schiavitù non è consentita, perché retribuire con due euro chi scrive un articolo è prova di schiavitù. Abbiamo tanto lavorato per ottenere questa legge. È tollerabile che a distanza di tanti giorni dalla sua approvazione quella legge non sia stata ancora pubblicata dalla Gazzetta ufficiale? Non lo è, signor Presidente. Che cosa sta accadendo, chi o che cosa non lo consente? È indicativo il fatto che non un giornale, non uno, abbia dato notizia dell’approvazione di quella legge?“.
Silenzio in sala. E silenzio nei giorni successivi.
Strano? Mica tanto.
Il contesto è l’ideale per un leggicidio perfetto: scadenze di fine anno e di fine mandato, ingorgo istituzionale, premier dimissionario che si candida alle imminenti elezioni, fibrillazione politica, attualità bruciante (oggi le esequie di “Pubblico“), trame di partito e di correnti in corso.
Per i “nemici” ideologici dell’equo compenso è grasso che cola.
Chi sono i nemici? Tanti. Molti perfino inconsapevoli.
Sono gli editori e la loro lobby politico-parlamentare. Sono certe parti del sindacato convinte che il lavoro autonomo non sia cosa loro (in effetti finora sono riuscite a dimostrarlo benissimo). Certe altre parti del medesimo sindacato, anch’esse munite di ramificazioni politiche, viceversa talmente convinte che il lavoro autonomo sia cosa loro da non vedere di buon occhio che altri se ne siano occupati o possano occuparsene (mica per risolvere i problemi ma, al contrario, per non risolverli e, con il perdurare di essi, giustificare così la propria esistenza). Sono i vertici dei giornali, per la sopravvivenza fisica dei quali, apparato compreso, l’esistenza di una plebaglia disposta a tutto pur di scribacchiare, anche gratis o quasi, è vitale (quindi zitti e Mosca, con la maiuscola, su certe notizie trascurabili come l’equo compenso, terreno su cui nessuno, nemmeno i direttori, i colleghi, i giornali più “compagni” dichiarati, è vergine). E infine una massa silenziosa (e forse maggioritaria) di sfruttati presunti, cioè di quelle migliaia di giornalisti che, forti di altre occupazioni, scrivono per hobby e per i quali anche la sola eventualità della nascita di vertenze indesiderate sui compensi è una fastidiosa nuvoletta da scacciare. Questi i consapevoli.
Poi ci sono gli inconsapevoli.
Quelli che, attribuendo alla legge sull’equo compenso poteri che essa non ha (“più soldi per tutti“), sperano li aiuti a sbarcare un lunario non sbarcabile. Quelli che aspirano (legittimamente, ma illusoriamente) a un posto fisso e credono che l’equo compenso possa diventare il succedaneo di uno stipendio. Quelli che si lamentano se li pagano tre euro, ma poi sono convinti che essere messi alla porta dopo averli rifiutati significhi “perdere il lavoro” o “essere licenziati” e quindi continuano. Quelli (non pochi) che più di tre euro non valgono e per i quali anche un “aumento” a quattro euro equivarrebbe alla giubilazione. Quelli che lavorano per testate prive di contributi pubblici e come tali non soggette alla promulganda legge. Quelli che, non rassegnandosi alla precarietà intrinseca in un rapporto di collaborazione esterna, fanno una cagnara fuori luogo, scambiando una questione di squisito principio, come l’equo compenso, con una questione di rivendicazioni sindacali (ma allora perchè non si rivolgono al sindacato? Il rinnovo del CCNL è alle porte, il congresso si è espresso plurime volte sul lavoro autonomo e c’è pure una commissione ad hoc…). Quelli che hanno scambiato la legge per una clava con la quale abbattere il “sistema”. Quelli che rivendicano perchè sono “giornalisti”, senza chiedersi se lo sanno fare, nè come lo sono diventati, nè come lo fanno.
Ecco, al netto di tutti costoro, quanti ne restano di realmente interessati al e dal principio dell’equo compenso del lavoro giornalistico?
Fatevi due conti e capirete perchè Monti non risponde, la Gazzetta Ufficiale non pubblica e i giornali non scrivono un rigo sull’argomento. E anche perchè, se e quando entrerà in vigore, aldilà del principio gli effetti saranno materialmente modesti.
Auguri di un equo 2013.