Odg, compensi, Inpgi: nei dibattiti sul giornalismo il grande assente è sempre la stampa periodica e specializzata. Un mondo con dinamiche proprie, che coinvolge almeno 20mila giornalisti, di cui l’80% autonomi. Eppure si parla solo dei quotidiani e dei loro collaboratori.
Giorni fa ho seguito su Fb un’interessante diretta organizzata da Stampa Romana, moderata da Simona Maggiorelli, direttrice di Left, e Michele Mezza, docente di new media all’Università Federico II di Napoli, su “Le nuove figure professionali del giornalismo digitale“.
Oltre a Lazzaro Pappagallo, segretario di Stampa Romana e Silvana Aversa, coordinatrice Cpo ASR, sono intervenuti Marco Giovannelli, direttore VareseNews, Massimo Martinelli, direttore del Messaggero, Francesco Piccinini, direttore di Fanpage, Giulia Guida, Segretaria nazionale Slc Cgil) e, in chiusura, Carlo Verna, presidente Ordine Nazionale dei Giornalisti.
Il dibattito, sia tra i relatori che, in chat, tra i partecipanti, è però presto scivolato sulla questione un po’ frusta ma sempre attualissima dei compensi dei collaboratori, del perchè e del percome dei 3/5/7 euro a pezzo eccetera, con tutta la conseguente teoria di pro e di contro.
Senza che a nessuno purtroppo – scusate l’inciso – venisse in mente di evocare tra le concause del problema una delle più gravi ed evidenti: il giornalismo in Italia è ormai una professione pletorica, a cui si accede (e in cui si rimane) con facilità irrisoria, senza alcun filtro qualitativo, il che si traduce in un’offerta di lavoro poco qualificata ed eccedentaria al punto che spesso sconfina nella pura manovalanza, quando non nel dilettantismo. Con ciò che ne consegue economicamente.
Ma non è di ciò che voglio parlare, bensì del grande assente che puntualmente si riscontra sul palco di queste e consimili discussioni: la stampa specializzata e periodica.
Si tratta di un settore complesso e variegato, che corrisponde a metodi di lavoro e a dinamiche sue proprie. Un settore che, tra redattori e collaboratori, raccoglie circa 20mila giornalisti (ovvero un quinto del totale nazionale), di cui almeno l’80% autonomi. Insomma non una nicchia, un comparto marginale, ma una pietra angolare del sistema editoriale e giornalistico italiano.
Eppure nulla, come se non esistesse: quando si parla di giornali e di giornalisti, lo si fa solo dal punto di vista dei quotidiani e dei loro collaboratori.
Argomento serissimo, intendiamoci, ma non certo unico nel quadro della professione.
La stampa specializzata sempre e quella periodica spesso si avvalgono infatti di competenze e di professionalità diverse, con un sistema di compensi e perfino di contratti diverso, appoggiandosi a filiere economiche diverse, che sovente nulla hanno a che fare col mondo dei quotidiani da un lato e dell’informazione generalista dall’altro.
Questa cecità, e l’evidente incapacità di chi appartiene a quel mondo di rendersi visibile agli occhi delle istituzioni, si traduce nel fatto che il giornalismo di settore è fuori da tutto: dai dibattiti, dai riflettori mediatici e fatalmente anche dagli organi rappresentativi della categoria. In Odg, Fnsi, Inpgi, Casagit e relative articolazioni regionali gli esponenti del giornalismo specializzato o periodico di contano sulle dita di una mano.
Il risultato è di essere trasparenti non solo all’interno della categoria ma, cosa anche peggiore, al suo esterno.
Prova ne sia che, sebbene la crisi da Covid abbia messo al tappeto decine di testate, fatto abolire centinaia di rubriche tematiche e posto quindi sul lastrico migliaia di giornalisti (tra i quali fior di professionisti), ormai da un anno pressochè disoccupati, da nove mesi a questa parte non si è neppure ipotizzato uno straccio di ristoro statale, di provvedimento, di sostegno. Nulla.
Però si continua a parlare solo dei problemi di chi lavora nella stampa generalista e nei quotidiani.
Se ambissi a candidarmi all’OdG, un pensierino a questa faccenda ce lo farei visto che, a questo punto, probabilmente si vota a settrembre e il tempo per occuparsene ce ne sarebbe.