Anche i giornalisti sono, a loro modo, “influencer“: influenzano la conoscenza e le opinioni. Basta che lo facciano con indipendenza. Se l’indipendenza non c’è, perchè dipendono da chi ha interesse a influenzare loro, diventano influencer normali.

 

E’ influente ciò che influenza e che, pertanto, condiziona.

Nel caso dell’informazione, essa è influente (e quindi sono influenti i giornali e i giornalisti che la praticano) se contribuisce a creare conoscenza e a formare delle opinioni basate su fatti veri. Una regola aurea, valida per qualsiasi tipo di giornalismo.

Sembra ovvio, ma non lo è mica tanto.

Ci pensavo rileggendo giorni fa un pezzo (per l’intero, qui) di Daniele Cernilli, storica firma enoica, che in sintesi affermava questo: poichè il nostro sito ha molti follower ci possiamo senza dubbio autodefinire influencer, cioè influenti, ma ciò non toglie che, al di là delle questioni terminologiche e del nome del contenitore, si sia e si resti giornalisti. Ovvero si faccia informazione indipendente e con trasparenza.

La nota di Cernilli è ineccepibile: in quello sta la differenza.

Il punto è che, oggi, essere indipendenti è difficilissimo, perchè per avere indipendenza occorre non essere tributari di nessuno e quindi avere quell’autonomia che il sistema, per la sua stessa natura, vuole condizionare pro domo sua.

In altre parole, il sistema (inteso nel senso più complesso della parola) vuole essere l’influencer degli influencer. Anche, e anzi soprattutto, di quelli in teoria non influenzabili.

Del resto l’indipendenza dei giornalisti si basa su due componenti costitutive, cioè l’una indispensabile all’altra: l’autonomia di pensiero, sostenuta dalla deontologia, e l’autonomia economica, sostenuta dal fatto che qualcuno ti paga per scrivere la verità qualunque essa sia, e non quella di comodo che serve a chi deve vendere, per questo ti paga, i propri prodotti, avere consenso o visibilità, gabellare i suoi punti di vista per verità oggettive.

Ciò basta a porre chi fa il nostro mestiere in una posizione di naturale solitudine o, se vogliamo, a trasformare qualsiasi nostro interlocutore in una naturale controparte, in un portatore di interessi e fini potenzialmente opposti.

Che fine faccia tutto questo quando la sussistenza del tuo lavoro dipende non da un committente, ma appunto da una controparte, e quando dal capriccio di questa dipende perfino la possibilità di svolgimento fisico del lavoro stesso reso praticabile solo attraverso viaggi, inviti, eventi, gratuità decisi o concessi da quella medesima controparte, lo lascio giudicare al lettore.

Eppure, a ben guardare il problema di fondo è un altro: quella tanto biasimata controparte non fa nulla di male nè di illecito, se non approfittare del buco nel quale si è permesso che i giornalisti precipitassero.

Ed eccoci all’acqua-