Nella scientifica ma autolesionistica indifferenza generale, in 16 mosse il giornalismo italiano ha abbandonato al loro destino, sui barconi di sanità e pensione, i profughi della professione. Cioè gli autonomi. Come dimostra la propaganda di questi giorni.
Sull’onda dei tonitruanti annunci che fanno da sfondo alle solite, striscianti campagne elettorali, da qualche giorno si sono riaccesi – in un ping pong di comunicati stampa e di commenti social – i fari sul welfare dei giornalisti.
O, meglio, della subcategoria dei cosiddetti giornalisti “autonomi“, cioè l’enorme mole di iscritti all’albo che raccoglie professionisti e dilettanti, disoccupati e altrofacenti: un esercito di 40mila persone, tutte in teoria (in estrema teoria) beneficiarie dell’ombrello sociale dell’Inpgi2 (la cassa di previdenza) e della Casagit (la cassa integrativa di assistenza sanitaria).
Dico in teoria perchè la stragrande maggioranza da un lato, causa assenza cronica o venuta meno del reddito, in concreto non beneficia di alcuna assistenza sanitaria integrativa (la Casagit è a pagamento, va a scaglioni, costa tanto e dà pochissimo); mentre dall’altro, causa cronica presa in giro politico-istituzionale, al sospirato momento della pensione, dopo aver versato per vent’anni fino a duemila euro l’anno, i più ricchi riscuoteranno un vitalizio mensile minore di mille euro e i più poveri, cioè quelli con meno contributi, un assegno annuale (sottolineo: annuale) di mille euro.
Ad accendere le polveri del dibattito ci ha pensato in una nota su Facebook (qui) Maria Giovanna Faiella, esperta di sanità e di questioni sindacali giornalistiche.
Da lì, svariati interventi di censura e di disinformatja a parte, tra colleghi si è più o meno giunti alla conclusione che la radice di tutti i mali è sempre la stessa: la mancanza di reddito o, peggio ancora, il crollo del reddito di chi un introito da attività professionale ce l’aveva e su di esso aveva fatto ragionevoli progetti di vita e di lavoro, ma ora non l’ha più.
Da qui lo slogan: rimettiamo il reddito al centro della questione.
A mio modo di vedere, però, l’operazione rischia di essere perfettamente inutile se prima non si cerca di capire le ragioni per le quali quel reddito, che c’era, si è via via ridotto fin quasi a scomparire.
E qui, sorpresa, si sono aperte le più fantasiose cataratte.
La realtà invece è semplice e lineare, anche se lunga da raccontare.
E i motivi sono da sempre sotto gli occhi di tutti coloro che vogliano, avendone l’acume e l’onestà intellettuale, vederli: una serie di concause la cui consequenzialità è stata esiziale per la professione.
Eccole:
1) La sinecura parlamentare che, in modo a volte malizioso, impedisce da molte legislature di riformare una legge professionale che è ormai preistorica rispetto al mondo contemporaneo.
2) La proliferazione incontrollata, causata dalla detta sinecura e dall’applicazione lassa e/o sciocca e/o furbesca e/o utilitaristica delle norme vigenti, degli “aventi titolo“: da decenni l’OdG è un “giornalistificio” che vomita senza criterio giornalisti di nome ma spesso non di fatto nè di reddito.
3) Il corollario del punto di cui sopra: mancanza di repressione degli abusi del titolo professionale, dal quale siamo ormai sommersi.
4) La possibilità concessa a tutti i non giornalisti di scrivere articoli anche con continuità, con la scusa dell’art. 21 Cost.
5) La smania di apparire/pubblicare tipica della società contemporanea, che trova nella stampa (carta, radio, tv, web) uno dei massimi palcoscenici e per assecondare la quale la gente pare disposta a tutto.
6) Il dopolavorismo dilagante: siccome in sostanza campo d’altro, posso anche permettermi di scrivere gratis o nummo uno e tanti saluti se faccio concorrenza sleale a chi ci campa davvero.
7) La prassi del marchettismo utilitaristico (scrivo facili articoli compiacenti in cambio di piccoli benefici materiali o mediatici) e sua ormai affermata accettazione sociale.
8) La scomparsa all’orizzonte, per ragioni anagrafiche, di maestri capaci e severi in grado di far progredire i più dotati e di dissuadere dalla professione i meno dotati.
9) L’abbassamento generalizzato e trasversale della qualità dei giornali in termini di contenuto minimo accettabile: scrivono anche i cani e i semicani, basta lo facciano gratis o quasi.
10) Il primato della pubblicità sull’informazione e la sua accettazione non solo da parte del lettore, ma perfino da parte dei giornalisti.
11) La crescita del livello medio di capacità di scrittura dovuto alla più larga scolarizzazione, all’avvento dei correttori e al ricorso all’informatica.
12) L’enorme facilità odierna di un accesso rapido alle informazioni (bufale comprese).
13) La mancanza di filtri qualitativi, di sanzioni disciplinari efficaci.
14) omissione di ripulitura periodica dell’Albo.
15) La rapidissima obsolescenza degli articoli dovuta alla facilità di diffusione in rete e di aggiornamento in tempo reale.
16) Uno pseudosindacato impegnato a coltivare il suo orticello di politica e di potere, alla faccia nostra (cioè degli autonomi), mentre noi ne paghiamo la sinecura, la miopia cronica, l’autoreferenzialità, l’ipocrisia, l’inadeguatezza, la malafede e la mancanza di rappresentatività.
La sommatoria di questi sedici punti ha portato a un appiattimento drastico del valore economico dell’articolo “medio”. Da ciò è derivata una perdita quasi verticale del potere contrattuale del giornalista autonomo mediamente professionalizzato. La conseguenza è stata una generica perdita di professionalità della categoria e, quindi, di peso politico della stessa. Così il giro si chiude e noi si affoga. Non a caso gli unici che in qualche modo galleggiano sono quelli, ormai rarissimi, che possono mettere sul piatto della trattativa con la controparte il loro mix di esperienza, competenza specifica, prestigio, capacità, avviamento.
Ecco, una volta chiarito questo rimettiamo pure il reddito al centro del discorso.