Nel vaniloquio sui massimi sistemi del web, dove esistono solo venditori e compratori, non c’è posto per i giornalisti che fanno domande e non danno tutto per scontato. Segno che c’è ancora bisogno di noi, ma altrove.

 

Sono reduce dal solito giretto sui social e, da lì, in rete.

Deprimente per livello di toni, argomenti, grammatica e cultura generale.

Ma soprattutto perché la poltiglia propagandistica a cui quegli strumenti si sono ridotti permea ormai qualunque argomento trattato.

Non parlo di pubblicità e nemmeno di propaganda esplicita, ma proprio di poltiglia: un fango ambiguo e appiccicoso in cui tutto è mescolato e ogni differenza funzionale o rispetto dei ruoli è caduto. Marmellata stucchevole che serve solo a vendere alla massa le droghe globali dell’omologazione e del conformismo.

Eppure esco quasi euforico da questa ricognizione.

Mi sono soffermato infatti sui programmi di alcuni cosiddetti grandi eventi dei settori che più mi interessano: ovunque ho trovato temi tonitruanti e parterre de roi più affollati della metro in ora di punta. C’è di tutto, con abbondanza di qualifiche fantasiose e spesso autoattribuite: esperti di questo o di quello, “content creator” (dire autori non fa figo), docenti non si capisce di che nè di dove, “appassionati” (eh?), “ceo” (da buon toscano, per me l’unico ceo è il non vedente) che ovviamente reclamizzano solo la propria azienda, influenzanti e influenzati, si capisce.

E giornalisti.

Peccato che quasi sempre si tratti di giornalisti per modo di dire, cioè di colleghi che, nella vita (è legittimo!) fanno altro e sono chiamati lì solo per essere funzionali alla tesi che si vuole dimostare. Insomma inoffensivi e talvolta compiacenti.

Quindi non manca nessuno, tranne i giornalisti normali.

Ossia non quelli (chiariamolo subito, sottraendoci dal novero dei cantori dall’epica professionale) per forza  tignosissimi che alla gente piace immaginare, bensì gente che ogni giorno fa il suo onesto lavoro, scrive articoli, fa la spesa, paga le bollette, magari non dorme se ha il dubbio di non aver abbastanza verificato una notiziola e mantiene una sana, istintiva diffidenza verso le dichiarazioni “ufficiali” e il precotto. Insomma i cari, vecchi cronisti.

Ebbene: di costoro, cioè di coloro che su quei palcoscenici potrebbero davvero portare una testimonianza indipendente, o il beneficio di un dubbio, non c’è quasi traccia.

Eppure chi altro saprebbe contribuire meglio di loro ai dibattiti con argomenti critici, visto che tali eventi vengono gabellati proprio come opportunità per “far luce” su questo o quel grande tema di collettivo interesse?

Domanda ovviamente retorica.

Ecco dunque la ragione della mia euforia: mai come adesso, in questo mondo poltiglioso, c’è stato bisogno dei giornalisti. Di gente cioè in grado di fare domande, e anche di farsene, senza preconcetti. Con quel dubbio misto a disincanto indispensabili per cogliere il mondo qual è.

Naturalmente a Houston abbiamo un problema: autonoma e parallela rispetto alla grande macchina della propaganda dilagante bisognerebbe ci fosse un’informazione neutra, trasparente e capace di qualche visibilità. Informazione la quale invece, per demeriti propri e altrui, arranca.

Se però, cari colleghi, a tenerla in piedi proprio non ce la facciamo, cerchiamo almeno di mantenere le caviglie fuori dalla melma dove tentano, ahinoi con successo, di risucchiarci. Oppure buttiamoci anche noi nelle sabbie mobili del marketing una volta per tutte e non se ne parli più.

Sarebbe più dignitoso.