Nostalgia, oleografia, “si stava meglio quando si stava peggio”, retorica in libertà, primi sintomi di una senescenza incipiente? Nulla di tutto questo. Ma l’uscita di un libretto a cavalcioni tra ricordi e antropologia, tra didattica e sociologia può aiutare parecchio a “ripensare” certe convinzioni. E a mostrarci come, se non migliori, non fummo certamente peggiori della viziata infanzia di oggi.
La fionda, il taboga, la gibigiana, arco e frecce. Tutto fatto da soli. Usando il materiale offerto direttamente dalla natura. O i piccoli scarti domestici di un’epoca in cui, essendo pochi i consumi, erano scarsi anche i rifiuti. Per cui si trovava il modo di farsi durare pure quelli. I turaccioli usati, i rocchetti del filo per cucire, il legno degli imballi, il filo di ferro, i tappi a corona delle bibite. Per me, figlio di un boom economico che mi ha comunque lasciato il tempo per conoscere dal di dentro l’Italia rurale e quella di provincia, dei paesi, dei piccoli centri, delle frazioni, è difficile stabilire il momento esatto in cui è avvenuto il passaggio culturale tra i bambini di una volta e quelli di oggi. Dove i primi non erano, a conti fatti, molto più poveri dei coetanei odierni, ma venivano da una cultura improntata alla parsimonia come principio fondamentale, e i secondi forse non sono davvero più ricchi, ma hanno solo, assieme alla maggiore disponibilità, molti più “bisogni” e un senso molto minore del valore utile degli oggetti, delle cose, dello stesso denaro. Gli uni “usavano” le cose, gli altri le consumano. Gli uni non avevano alcuna certezza che il giocattolo ricevuto o costruito potesse facilmente essere sostituito con uno nuovo o migliore. Gli altri lo danno per scontato.
Tutto ciò mi è tornato prepotentemente in mente sfogliando un delizioso libretto del 1984 appena ripubblicato dalla casa editrice Arca di Grosseto: “Giochi e passatempi dei ragazzi di ieri” (100 pag, 12 euro), di Alessandro Giustarini, ricercatore e studioso di tradizioni popolari e maremmane scomparso prematuramente qualche anno fa.
Giustarini era nato nel 1947 a Santa Caterina, piccola frazione di Roccalbegna, in provincia di Grosseto. Maremma profonda. Profonda oggi e soprattutto allora, quando i ragazzi giocavano per le strade quasi orfane delle auto, coi pantaloni corti e le ginocchia perennemente sbucciate, liberi di una libertà impensabile ai giorni nostri. Giornate simili a quelle trascorse “all’oratorio, con tanto sole, tanti anni fa” e alle “domeniche da solo in un cortile a passeggiar” dei bambini di città, dove la solitudine, però, era il frutto inconsapevole più dell’enorme quantità di spensierato tempo libero che della reale mancanza di compagnia e di cose da fare.
Nel mondo descritto da Giustarini Santa Caterina diventa dunque il paradigma, il punto di riferimento, il luogo dell’esperienza autentica, lo scenario di un’infanzia passata tra giochi quotidiani fatti di niente. Non solo perchè, forse, mancassero i soldi per comprarsi qualcosa con cui giocare, ma anche perchè in giro c’era poco da comprarsi e perchè a quei tempi il gioco tendeva a scaturire da solo, dagli oggetti trovati per caso, dai cassetti svuotati, dalle perlustrazioni in soffitta, dalle visite rese a fabbri, maniscalchi, falegnami, meccanici, contadini. Tutti paternamente burberi ed eppure tutti disposti a far sì che ragazzini più o meno dispettosi gironzolassero per le loro botteghe alla ricerca di una vecchia camera d’aria per la fionda, qualche grosso chiodo, un ferro di cavallo, un cuscinetto a sfere. Un mondo dove tutti si conoscevano, dove la tutela sociale era “in rebus”, dove tutto sfuggiva e tutto si sapeva, dove la tecnologia era non solo un concetto, ma perfino una parola sconosciuta.
Il lavoro di Giustarini è però tutt’altro di un noioso e un po’ melenso deja vu, di un racconto dei bei tempi andati. E’ invece (e non nuoce l’apparato iconografico, che con grazia mescola foto d’epoca e falsi “seppiati”, schede informative e istruzioni per la costruzione e l’uso degli antichi balocchi) un lavoro scientifico di catalogazione di schedatura e al tempo stesso un invito al gioco e alla manualità, da cui traspare un afflato di singolare passione, di acuta ma controllata nostalgia, di sorridente spaesamento, quasi a sottintendere che, preso atto dei tempi mutati, l’autore resta più “là” che “qua”.
I giochi documentati sono divisi in tre sezioni: quelli ricavati da materiali naturali (legno, sassi, canna), quelli ricavati dal riutilizzo di altri oggetti (cuoio, rocchetti, corda, ferro) e quelli fabbricati da un artigiano (la ruzzola, il fischio, etc). Una miniera di ricordi per i meno giovani e una sorgente di suggerimenti per i giovanissimi.
Per ogni gioco sono indicati i materiali utilizzati, la tecnica di costruzione, le modalità d’uso e la funzione. Il tutto, come detto, ben illustrato, quasi un manuale, un sussidiario per il tempo libero.
Ci vorrebbe il coraggio di fare un esperimento e di regalarne una copia ai nostri figli, sfidandoli a farne tesoro per le vacanze dopo aver lasciato a casa tutto l’apparato di videogiochi, aggeggi elettronici, pc e plastica varia. Niente di nostalgico. Solo qualche settimana solidamente formativa da cui, certamente uscirebbero migliori. O almeno più consapevoli.