E’ scontro tra i giovani giornalisti e i pensionati, dopo che la Cassazione ha dichiarato legittimo cumulare il vitalizio Inpgi e il reddito da lavoro. Ma è vera concorrenza sleale o solo l’effetto distorto di una patologia del sistema?

Subito dopo l’approvazione della Carta di Firenze e le polemiche che ne erano seguite già mi ero occupato dell’argomento, ma (qui) da una prospettiva un po’ diversa.
Ora il tema dello scontro generazionale e della concorrenza tra giornalisti – giovani, autonomi, precari e disoccupati da una parte, pensionati dall’altra – viene però riportato prepotentemente alla ribalta da una sentenza della corte di Cassazione (la 1098/12, depositata il 26 scorso: qui) che, nel rendere legittimo il “cumulo” tra pensioni e retribuzione, spiana anche legalmente la strada a una pratica da sempre diffusissima nel nostro mestiere: quella di reimpiegare nelle redazioni, come collaboratori esterni, i giornalisti che ne erano usciti per raggiunti limiti di età.
Con l’evidente risultato di creare un ulteriore ed ingombrante “tappo” per i colleghi più giovani, magari da anni in attesa di un posticino al sole o almeno di qualche spazio (e quindi opportunità di reddito) in più.
E’ evidente come, messa in questi termini e senza entrare nel merito tecnico della questione, la decisione della Suprema Corte possa effettivamente tradursi in un notevole ostacolo alle legittime aspirazioni lavorative delle nuove e anche delle seminuove generazioni giornalistiche, tutte in ormai costante affanno reddituale. E come, viceversa, la sicurezza economica dei più anziani metta questi ultimi nell’invidiabile condizione di poter “lavorare per hobby“, senza doversi arrabattare nelle ristrettezze dei giovani colleghi.
Sia chiaro: non è sempre va così, ma bisogna onestamente riconoscere che accade spesso.
Da qui la levata di scudi a cui, da ogni dove della galassia autonomo-precaria (ad esempio qui), si è assistito contro il provvedimento.
Teoricamente non fa una piega.
Ma in pratica sì, però.
Perchè il punto è il seguente: qual è il reale argomento del contendere, la nota dolente? La deontologia, la professionalità, la dignità, la capacità?
No, sono i soldi. I soldi che, sotto forma di lavoro, i pensionati impegnati in redazione sottrarrebbero ai più giovani lavorando in loro vece.
Fin qui ancora tutti d’accordo.
Peccato tuttavia che, alla resa dei conti, questi denari siano molto spesso un’inezia, una miseria, un’elemosina. I mille volte evocati dieci euro a pezzo o giù di lì. Nulla con cui poter vivere, neppure a costo di enormi sacrifici. Nulla con cui poter condurre una vita normale.
Si tratta allora, mi chiedo, di somme che valgono una dichiarazione di guerra tra poveri? Per la quale vale la pena di combattere al fine di ricacciare oltre la siepe dei giardinetti i colleghi più attempati?
Io non credo.
Mi pare anzi che la faccenda sia una sorta di foglia di fico dietro la quale si nasconde il problema vero. E cioè che, in un giornalismo economicamente ridotto ormai alla condizione hobbistica o da diporto, solo chi è un pensionato – e che quindi a fine mese riscuote il suo vitalizio garantito dallo stato – oggi può permettersi di accettare i compensi simbolici, la precarietà, le estenuanti perdite di tempo, le perenni incertezze a cui i collaboratori esterni delle testate giornalistiche sono sottoposti per default.
E la vera scommessa, allora, è invertire questa tendenza, non alimentare la batracomiomachia tra i giovani precari arrabbiati e i loro ancora arzilli nonnetti.