Nell’intrigo spesso inconfessabile tra stampa, propaganda e marketing, il do ut des camuffato da informazione è prassi frequente. Male forse ineliminabile del tutto. Il problema è però quando il singolo giornalista accetta di fare da mediatore.

 

E’ da sempre un classico di fronte al quale qualunque giornalista di qualunque settore prima o poi si trova a sbattere: ti prospettano, a suon di esclamativi, inviti, prove, interviste, notizie esclusive, viaggi, confidenze, esperienze in luoghi e circostanze. Tutte cose oggettivamente interessantissime. E che, assicurano, anelano di offrire a te, proprio a te e a nessun altro che a te.

Ma a una condizione, si capisce: ne devi “garantire la pubblicazione“. Nel modo che vogliono loro, ovvio.

Pretesa che, se per la controparte è logica o comunque auspicabile, non solo per chi fa in nostro mestiere è invece deontologicamente inamissibile ma spesso, anche volendo, è pure impossibile da soddisfare. Perchè, come è solare, non è il giornalista che, in un giornale, decide se, cosa, quando e come si pubblica qualcosa.

Tutto questo loro – cioè enti, portavoce, uffici stampa, pr, talpe, etc – lo sanno benissimo.

Ma ci provano: un po’ confidando nel vasto versante opaco della professione giornalistica, un po’ nell’atavica fame di benefits e scoop veri o presunti che pervade da sempre molti esponenti della categoria. E un po’ perchè, se alla fine riesce, l’operazione fa in effetti risparmiare una gran quantità di lavoro in relazioni, frequentazioni, contatti, tessitura di tele, trattative paracommerciali, bisbigliature varie, veline, eccetera.

Di situazioni del genere, nella mia carriera, ne ho rifiutate a decine. Per fortuna non da solo. Ma so di essere comunque in larghissima minoranza.

Siccome però nella sostanza si tratta sempre, tanto per dare alle cose il loro vero nome, di un banale do ut des, insomma di uno scambio merce, qualcuno potrebbe chiedersi: ma perchè i proponenti non vanno direttamente in redazione, o meglio dal direttore, offrendogli gratuità di beni, servizi e notizie in cambio di una “pubblicazione garantita”? Dopodichè il direttore può convocare un ignaro redattore o collaboratore, commissionargli l’articolo e almeno le apparenze sarebbero salve.

Già: perchè non funziona sempre così (infatti solo talvolta succede, ma di rado)?

Le ragioni sono diverse.

Buttandola sul piano concreto, cioè commerciale, c’è il rischio ad esempio che il direttore chiami il proprio ufficio marketing e a contrappeso della “pubblicazione garantita” metta anche l’acquisto di qualche spazio pubblicitario o pubbliredazionale.

Un’altra ragione è che, prospettando (sempre in cambio della solita garanzia) a più giornalisti l’opportunità di gratuità più o meno ghiotte o goderecce, si moltiplicano in tal modo le bocche da fuoco e le pressioni verso le testate, al contempo dando ai compiaciutissimi colleghi l’impressione di coltivare con loro relazioni preferenziali.

E’ evidente però che, oltre una certa soglia – quella, direi, della verità di ciò che si pubblica rispetto al preteso – si tratta di un mero mercimonio, con una pericolosa confusione di ruoli e l’annullamento tanto del senso del giornalismo quanto dell’indipendenza dell’informazione.

Qualcuno dirà, a ragione, che certi lavori sporchi sono necessari e che qualcuno deve pur farli.

Vero anche questo.

Eppure resto convinto che non spetti a noi.