Le “sommosse” popolari che agitano le rivalissime Pisa e Livorno di fronte alla prospettiva di un accorpamento mi fanno tornare in mente le antiche proposte del presidentissimo del Pisa Calcio e un libello di alcuni anni fa che spiegava le ragioni della faida. Io lo recensii così.
Della rivalità più storica e rancorosa d’Italia, quella tra Pisa e Livorno, sono pieni gli aneddoti e le pagine del “Vernacoliere”, il feroce giornale satirico della città labronica (memorabile la “civetta” dopo il disastro di Cernobyl: “Primi effetti della nube radioattiva: è nato un pisano furbo”). Ma mai nessuno si era avventurato in una – ancorché scherzosa – spiegazione sociologica del fenomeno.
Ci prova ora [era il 2007, ndr] un libello appena edito da Zona (Pisa & Livorno, istruzioni sulla guerra e sui campanili, 10 euro) e scritto con il piglio di chi la sa lunga da Alessandro Agostinelli, che si definisce “consulente in cinema e comunicazione”, ma poi si guarda bene dal rivelare la propria origine. Saggia decisione. Perché se quello tra pisani e livornesi è un antagonismo che va ben oltre i luoghi comuni e non può essere definito né odio ma qualcosa di più, una sorta di differenza ontologica ed esistenziale, la teoria proposta da Agostinelli è tanto originale quanto pericolosa. Secondo l’autore, infatti, Pisa e Livorno si odiano perché sono solo due quartieri di una medesima città: come in America c’è New York, la Grande Mela, in riva al Tirreno (o in fondo all’Arno, che è la stessa cosa) c’è Pisorno, la Grande Pera.
I capisaldi di questa faziosità si conoscono.
A Livorno sono popolani e di sinistra. Anche a Pisa sono di sinistra, ma aristocratici. I secondi sono tendenzialmente colti quanto i primi sono ignoranti. Per i pisani i livornesi sono grezzi e maleducati, per i livornesi i pisani sono “signorini” e un po’ stupidi. Un’accusa, questa di essere stupidi, alla quale spesso a Pisa non sanno rispondere con adeguata dialettica e che subiscono con silenzioso livore. Noi, pensano, siamo una città antica, una repubblica marinara, mentre loro fino a cent’anni fa erano poco più che un villaggio di pescatori: niente storia, nessun monumento tranne i bastioni medicei (simbolo del servaggio per gli odiati Medici, peggio che mai!). “Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio”, ribattono a Livorno con un motto divenuto ormai, almeno in Toscana, di uso comune. “Le parole le porta via il vento, le biciclette i livornesi”, sentenziano sprezzanti sotto la torre pendente. Quelli di Livorno, del resto, si sentono “di mare” mentre i pisani, nonostante i trascorsi storici, si sentono “di terra”. A Livorno c’hanno il porto, ma a Pisa l’università. I livornesi sono operai, eppure creativi e scanzonati. I pisani sono, a priori, intellettuali.
Una diversità lacerante che si manifesta ogni notte in una silenziosa guerra di confine combattuta a colpi di bombolette spray e dell’epiteto più coprofilo d’Italia vergato su muri e cartelli stradali. Ma se in questa specialità eccellono i livornesi (il diffusissimo “pisam….” è certamente più eufonico e secco), i pisani prevalgono invece nella poesia: “Il sogno del pisano è svegliarsi a mezzogiorno – c’è scritto sugli spalti dello stadio – guardare verso il mare e non vedere più Livorno”.
Già, il calcio: ecco un’altra delle radici dell’odio. Anche nel ciclico altalenarsi delle fortune pedatorie, mai le due città hanno conosciuto insieme la ribalta. Alla disgrazia dell’una ha sempre corrisposto l’eccellenza dell’altra. E così, via con gli sfottò. E pensare che il povero Romeo Anconetani, leggendario presidente del Pisa degli anni’ 80, propose una volta di unificare le due squadre per cercare gloria sotto una sola bandiera. Il nome pensato per la nuova compagine? Pisorno, per l’appunto. Lo seppellirono di pernacchie.