La fretta è una cattiva consigliera e la pur comprensibile furia semplificatrice del governo alle prese con la manovra anticrisi non sembra sempre improntata a criteri di ponderazione. Il numero degli abitanti, ad esempio, è un’unità di misura fallace per individuare i rami da potare. E il rimedio potrebbe essere peggiore del male.

Buttare via il bambino con l’acqua sporca è un classico delle decisioni prese in fretta, sotto la pressione emotiva o per soddisfare le richieste isteriche della piazza.
Prendiamo l’abolizione delle province, tema certo non nuovo ma tornato attualissimo con il progetto del governo di azzerarne 36 nell’ambito della manovra anticrisi di questi giorni.
Non c’è dubbio che, in grandissima misura, molte delle province nate negli ultimi 30 anni abbiano visto la luce al solo scopo di alimentare la burocrazia, i campanilismi, gli interessi economici e di conseguenza il poltronificio politico. In pratica, enti inutili e costosi. Anche perché, con il tempo, le competenze delle amministrazioni provinciali sono progressivamente scemate e quindi il loro ruolo istituzionale è diventato sempre più marginale. Da qui l‘ampio movimento di opinione per la loro abolizione.
Il problema è che non tutte le province italiane sono uguali.
Checchè se ne dica, molte abbracciano aree storicamente e culturalmente omogenee, munite quindi di una forte identità. Un’identità che si tramuta in presenza capillare e in conoscenza minuziosa e organica del territorio. Altre, nate artificialmente ma ormai molto temo fa (penso ad esempio a quelle di istituzione mussoliniana, come Pistoia), l’omogeneità prima mancante l’hanno raggiunta e corrispondono quindi a un ordito logico e ormai assestato.
Voglio dire che in molti casi i territori provinciali non coincidono più o soltanto con scansioni di utilità amministrativa, ma talvolta con sistemi coerenti.
Per questo, pur condividendo il principio razionalizzatore generale che sta alla base della prospettata cancellazione delle trentasei province, trovo sbagliato il criterio puramente quantitativo adottato dal governo e fondato sul numero degli abitanti.
Un criterio che, tra l’altro, rischia di condurre a risultati opposti a quelli desiderati. Perché una cosa è abolire una provincia “concentrata”, cioè con una sotto i 300mila persone ma spalmata su territorio relativamente limitato, cosa che può giustificare l’accorpamento con altre amministrazioni. Un’altra è abolirne una sotto i 300mila abitanti ma di grandi proporzioni (penso ad esempio, sempre per rimanere in Toscana, a quelle di Siena o di Grosseto, che da sole coprono quasi un terzo della regione). Con la probabile conseguenza del raddoppio dell’isolamento dal “centro” di comunità già attualmente decentrate (a volte distanti anche 100 km dal capoluogo) e della necessità di creare nuovi snodi amministrativi decentrati che farebbero rientrare dalla finestra i costi fatti uscire dalla porta.
Senza contare la rottura delle valenze storiche e culturali cui si accennava sopra e che tuttora costituiscono il mastice identitario di molte regioni italiane.
Tutto ciò obbedirà anche a un criterio di razionalizzazione e di modernizzazione, ma dubito assai che, in questa accezione, la tanto evocata “modernità” sia una conquista. Onestamente in certi casi preferirei mantenere le mie viscosità, le mie zavorre, i miei colli di bottiglia, perfino le mie arretratezze, se il prezzo da pagare è un’omologazione cieca, mutuata da modelli che, loro malgrado, non hanno né la nostra storia, né la nostra complessità.
I criteri per il miglioramento e per una maggiore efficienza del sistema amministrativo italiano devono essere anche altri rispetto a quello banalmente demografico. Geografico, ad esempio. Storico. Culturale. Infrastrutturale. Trasformare l’Italia in un grande Midwest poco costoso e tutto uguale, ma senz’anima, non ha senso.