Da un po’ nel mondo del giornalismo non si parla d’altro, come se l’unico problema della categoria fossero i contratti a termine. Ma quello che allarma è l’incapacità del sistema, e spesso dei diretti interessati, di capirne le ragioni profonde e le possibili vie d’uscita.

Anche nel mondo del giornalismo, da qualche tempo, non si fa che parlare dei precari. O meglio della “piaga del precariato”. Lo si fa con un’insistenza ossessiva che ormai ha ufficialmente collocato l’argomento nell’alveo del politicamente corretto e che, paradosso, a forza di “al lupo” rischia di danneggiare gli interessi dei precari stessi.
Vorrei chiarire che per precario si intende colui che è titolare di un contratto a termine e non anche, come molti erroneamente credono, la variegata fauna di freelance, abusivi, cocopro, false partite iva, arzilli pensionati e così via che affollano le redazioni dei giornali.
I precari, si diceva. Una questione indubbiamente seria. Ma a giudicare dallo strepito che si fa attorno a questa fin troppo copiosa categoria di giornalisti, sembrerebbe che il solo problema del giornalismo italiano sia quello che li riguarda: risolto quello, risolto tutto. Bella sciocchezza. In realtà, il precariato è la punta dell’iceberg di un malessere che attraversa l’intera professione e che, al momento, trova nei contratti a termine la sua testa di ponte, grazie alla grande visibilità che negli ultimi anni, e in ogni campo, questa tipologia contrattuale ha ottenuto presso il dibattito politico e l’opinione pubblica.
Sia chiaro: lungi da me voler minimizzare la questione. Anzi. Non vorrei però che essa finisse per fare da paravento a tutta la serie di altre e più profonde magagne da cui il problema stesso trae origine.
E spiego perché.
Innanzitutto è una faccenda di numeri: le statistiche dimostrano (lo dice, vedi qui, il prof. Pietro Ichino, da me più volte citato) che in Italia il ricorso ai contratti a termine è più o meno nella media europea. Non è quindi vero che la popolazione dei precari è più alta che altrove. E’ vero casomai che costoro faticano immensamente di più che in altri paesi europei ad essere “stabilizzati”, ad accedere cioè, dopo un ragionevole periodo, a quel contratto di lavoro a tempo indeterminato che costituisce il loro legittimo obbiettivo professionale. E nel frattempo, è ovvio, le fila si ingrossano.
Le ragioni di questa cronicizzazione del precariato che rischia di far naufragare carriere, aspirazioni, vocazioni, studi e famiglie, nel settore giornalistico sono essenzialmente quattro.
La prima è che il protrarsi dello stato di crisi del settore da un lato e l’evolversi del sistema dell’informazione dall’altra (redazioni sempre più asciutte, approfondimenti sempre minori) non agevola l’assorbimento in pianta stabile di nuovi lavoratori.
La seconda è che gli editori, furbescamente, approfittano della scusa della crisi anche quando potrebbero assumere: facendo leva soprattutto su una sovrabbondanza di offerta di manodopera giornalistica (per effetto della cosiddetta “operaizzazione del giornalismo”) che consente loro di attingere a un’ampia manovalanza soggetta a rapide rotazioni.
La terza è che il mercato del lavoro offre alla parte datoriale anche alternative spesso più convenienti e meno conflittuali degli stessi contratti a termine: è l’immenso popolo delle “false partite iva”, cioè di quelle migliaia di giornalisti che, pur sostanzialmente lavorando come dipendenti (pertanto abusivi) in una redazione, figurano formalmente come liberi professionisti, accontentandosi di compensi risibili e di qualsiasi condizione di lavoro.
Ma la quarta e più grave ragione del fenomeno è che il sistema, ben lungi da comprendere la perversità del meccanismo, continua a creare senza alcun criterio nè selezione (ciò che io chiamo il giornalistificio) nuovi giornalisti, i quali a loro volta si buttano a capofitto sul mercato a fare concorrenza ai precari o diventando precari essi stessi o aprendo nuove fittizie partite iva, in una guerra fra poveri in cui l’industria editoriale sguazza.
La radice stessa del male, insomma, sta nella categoria dei giornalisti, incapace attraverso i propri organi di autogoverno di contenere una crescita divenuta incontrollata, nonostante l’esistenza di norme e percorsi di accesso alla professione che sarebbero sufficienti, da soli, a porre un argine a quest’inflazione catastrofica.
Bene fanno quindi i precari a invocare, da parte degli editori, la “stabilizzazione” dei titolari di contratti a termine. E cioè, metaforicamente, ad invitarli a togliere il tappo alla vasca della assunzioni dalla quale, altrimenti, i giornalisti traboccano. Ma meglio farebbero a dire all’idraulico, cioè l’Ordine, di riparare alla svelta il rubinetto che perde. E che, tappo o non tappo, continuando a versare acqua nella vasca, rende inutile qualsiasi deflusso.
O si fa così o la stanza si allaga. E tutti noi ci affoghiamo dentro.