Intervenendo giorni fa all’Accademia dei Georgofili, l’ex ministro dell’agricoltura e oggi Presidente della Commissione Agricoltura e Sviluppo Rurale del Parlamento Europeo ha fatto un quadro del dibattito in corso sulle modifiche alla politica agricola dell’Ue e sul contesto globale in cui essa si inserisce. Della serie: è nebbia o gas nervino?
Sarà una questione di punti di vista, ma dopo aver ascoltato quanto ha detto Paolo De Castro l’altro giorno all’Accademia dei Georgofili, a me la nuova Pac 2013-2020 sembra tale e quale il programma di governo di Mario Monti: avvolta nella nebbia.
Come del resto sembra avvolto nella nebbia il futuro della nostra agricoltura. Con una differenza, però: mentre la strada dell’eurocrazia è bella dritta, asfaltata e senza curve, quella degli agricoltori è piena di insidie e di burroni, dentro ai quali si può cadere in ogni momento. Anzi, dove alla fine si cadrà comunque. Soprattutto se ci viene chiesto di procedere alla cieca. Avete presente la canzone di Battisti, quella di “guidare a fari spenti nella notte per vedere / se poi è tanto difficile morire”? Ecco, quella.
Sia chiaro: l’ex ministro agricolo ed attuale europarlamentare è persona non solo competente, ma sufficientemente faconda e scafata da apparire comunque convincente nelle sue argomentazioni.
E infatti lo è stato, dicendo chiaro e tondo una serie di cose molto esplicite.
Dalle quali però, con un po’ d’accortezza, si deve trarre appunto la conclusione che, fuori dalle generalizzazioni e dalle teorie, il nostro settore primario è fritto e che la Politica Agraria Comune del prossimo settennio non sarà in nulla diversa dalla precedente: una flebo a cui il moribondo rimane attaccato in attesa che qualcuno chiuda definitivamente il rubinetto.
A voi giudicare se ciò sia un bene o una forma di accanimento terapeutico.
In sintesi, De Castro ha detto questo:
– recentemente India e Cina hanno comprato in Africa circa 45 milioni di ettari di terra;
– la domanda di terreni agricoli sale nel mondo a ritmo doppio dell’offerta;
– sul pianeta le uniche grandi estensioni non ancora coltivate sono appunto in Africa;
– se anche in Cina e in India adottassero uno stile alimentare vicino alla dieta mediterranea ci vorrebbero sei pianeti come la terra per sfamarli tutti;
– la causa dell’aumento del fabbisogno mondiale di prodotti agricoli (e quindi di terra per produrli) non è dettato dall’incremento demografico, ma dall’aumento del reddito in certi grandi paesi-chiave: insomma, più sono ricchi e più consumano.
Da qui deriva la crescente paura collettiva che il futuro riservi una generalizzata penuria di derrate. “Fino a qualche tempo fa – ha esemplificato l’ex ministro – l’Arabia Saudita aveva scorte di grano per tre mesi, ora ne ha accumulate di sufficienti per due anni”. Non è pensabile allora, ha aggiunto, che la Pac e il Farm Bill (cioè la Pac americana) non comincino fin d’ora a occuparsi di accrescere non solo la qualità, ma anche la quantità delle produzioni.
Un problema che investe direttamente l’Italia, visto che siamo forti importatori di quasi tutto (viene dall’estero, sempre ad esempio, il 90% della soia che utilizziamo a fini zootecnici); e che è ben presente perfino al colosso Usa, sebbene sia il massimo esportatore mondiale di derrate agricole con un saldo-monstre di 145 miliardi di USD.
“Se questa è la prospettiva – ha proseguito De Castro – l’attuale linea di riforma della Pac nasce già vecchia, perché guarda al passato e si basa su un impianto culturale superato, fatto di “greening”, ambiente, disaccoppiamento, accettazione delle scelte da parte dei cittadini, compatibilità, mentre oggi il grande problema è la food security, cioè la garanzia della disponibilità di cibo, e non più o non solo la food safety, cioè la qualità e la sanità dello stesso”. A dimostrazione della centralità di questo argomento, ha aggiunto, si sappia che gli sono state dedicate ben due delle venti pagine del documento finale del recente G20 di Cannes.
“Ciononostante – ha insistito – l’ultima proposta del commissario Ciolos sembra ignorare tutto questo, rifiutandosi di guardare a un futuro prossimo in cui le parole d’ordine saranno gestione, flessibilità, semplificazione, efficienza, prevenzione delle crisi globali a cui saremo soggetti”.
Insomma, la ricetta di De Castro è semplice: ovunque, anche in Italia, bisogna recuperare terra alla svelta e aumentare la produzione unitaria, perché la domanda planetaria è destinata a crescere e quindi le tensioni sui prezzi a salire. Chi resta indietro è perduto. Come fare? Recuperando, dice lui, la produttività media, che oggi nel nostro paese è di appena l’1% contro l’1,5% dell’Unione Europa, l’1,7% degli Usa e il 3% della “rivoluzione verde” degli anni ’70. Gli strumenti dovrebbero essere la sperimentazione e ricerca agricola, che però per il 75% è oggi in mano ai “Bric”, cioè Brasile, Russia, India e Cina. “Dovremmo avere meno sensibilità ideologica su certi temi” e convincerci che anche da noi la terra recuperabile per la coltivazione sarebbe moltissima, se solo lo si volesse.
Tutto chiaro?
Beh, in una certa ottica, certamente. Il modello, l’unico ammesso o percepito, è quello dello “sviluppo”, cioè della crescita, sollecitata da un mercato che si espande non in virtù dell’incremento demografico ma dell’aumento del reddito della popolazione mondiale.
Sotto un’altra ottica, però, non lo è affatto.
E’ lo stesso De Castro ad ammettere implicitamente l’esistenza del problema della limitazione delle risorse, quando dice che, se tutto il mondo adottasse il nostro stile di vita, non basterebbero “sei pianeti” a soddisfarlo. E’ dunque realistico pensare che la produzione agricola possa sestuplicarsi? E a quali costi? Con quali prezzi da pagare in termini sociali e ambientali? E’ l’ennesima cambiale in bianco firmata a favore degli Ogm?
Proviamo a tornare sulla terra e a parlare di Pac, di agricoltura di casa nostra. E’ realistico pensare che un paese come l’Italia, con la sua conformazione e il suo clima, possa prestarsi ad un recupero forzato della produttività e dei terreni coltivabili e che, ammesso di riuscirci, ciò consenta comunque al sistema di reggere la concorrenza di paesi e luoghi diversi? O c’è il rischio di uscire perdenti in partenza, impantanandosi in una vana rincorsa verso un’impossibile rimonta?
Secondo Paolo De Castro ciò è possibile, se l’Ue, attraverso la Pac, e noi stessi, attraverso una serie di provvedimenti, ci metteremo in grado di farlo. A cominciare da un consolidamento che passa attraverso il superamento della precarietà delle aziende e degli sbalzi di regime dei redditi che la provoca.
“Partiamo dalla regionalizzazione degli aiuti, un adeguamento che, con Spagna e Francia, siamo tra i pochi a non aver ancora realizzato. Ciò rende il nostro paese molte sensibile ai cambiamenti della politica agricola comune. La regionalizzazione però è un obbligo per gli stati membri, quindi il problema non è se, ma come realizzarla per renderla la meno impattante possibile. Io ho un’idea: procedere per gradi, per aree omogenee prima che amministrative, evitando scaloni che sarebbe difficile spiegare agli agricoltori, quando i sostegni calassero troppo bruscamente provocando guasti irreparabili per le aziende”. E poi? De Castro non ha dubbi: “In teoria, al punto in cui siamo, nella Pac ogni cambiamento è ancora possibile. Basta che ci siano le maggioranze politiche per deciderlo. Ma per farlo occorre tessere intese e alleanze tra paesi. Tutto è sul tavolo e se ne dibatte al parlamento europeo, anche se alla fine l’autorevolezza di chi che propone certe modifiche può avere un peso decisivo. Prendiamo ad esempio il greening: il parlamento è favorevole al principio, purchè non risulti troppo penalizzante. Ciolos pensa invece a riduzioni del 70% dei premi per chi ci rinuncia, secondo noi è troppo. La sostenibilità è legata a una questione di risorse e al loro migliore uso possibile, si tratta di una questione centrale da pensare per l’oggi, non per il dopodomani. Nel caso specifico italiano, inoltre, c’è bisogno di maggiore flessibilità, il nostro è una sistema complesso, articolato, in cui la necessità da un lato è semplificare, dall’altro proteggerci dai rischi legati alle fluttuazioni e dalla volatilità dei mercati”.
Insomma, la nuova Pac è alle porte, ma non si sa da che parte andare. Si invocano principi, ma non è detto né che siano i più adatti a noi, nè che si possano attuare concretamente. E’ in atto uno scontro più o meno velato tra le esigenze di bilancio del commissario europeo e gli interessi dell’agroindustria legati alla globalizzazione dell’agricoltura. Nel mezzo c’è l’Italia, un paese con scarso peso continentale, con uno storico disinteresse per il settore agricolo, con un territorio difficile e variegato, con limiti orografici ed agronomici oggettivi.
A pensarci bene, più che una nebbia quella che ci avvolge pare una nuvola di gas nervino.