Il cammino si è concluso da cinque giorni ma non è dimenticato. Anzi: più ci penso e più mi rendo conto che quella è una dimensione speciale. Forse l’unica rimasta per far sì che spostarsi continui a far parte del viaggio.

In un tempo non troppo lontano, l’avvicinamento alla meta faceva parte del viaggio.
Esso cioè manteneva quella residua parte avventurosa che si prestava di per sè a lasciare il segno, a essere ricordata: dai picnic coi panini della mamma nelle piazzole delle statali a certi lunghi scali in aeroporti sgangherati e pieni di spifferi, con servizi coreografici e senza l’incombente, omologato apparato commerciale.
Ora è cambiato tutto: attraversi i deserti con fuoristrada full-comfort, condizionati e molleggiati. I pullman granturismo arrivano ovunque, perfino alle porte degli accampamenti dei Masai (ammesso che siano veri). Le seggiovie imbottite e silenziose ascendono a vette che prima richiedevano scarpinate o intrepide gelate. Le trasvolate durano un attimo, tra film, giochini e intrattenimenti.
Nulla di male, è il cosiddetto progresso. O forse la messa a punto dell’industria del viaggio che, dovendo attirare numeri sempre più alti di viaggiatori forzatamente inesperti, li circonda più che può di contesti confortevoli.
Risultato: il tempo impiegato per andare da qualche parte è considerato perduto, meno è e meglio è, il bello arriva dopo e non durante, quindi nel frattempo meglio dormire, volare, scheggiare.
Ci ripensavo mentre, uno dopo l’altro, mi godevo i 100 km tondi in quattro giorni dell’ultimo Pellegrinaggio Artusiano (qui), da Monforte d’Alba a Marmora, in val Maira.
Cento km, vi assicuro, “fatti” – pensati, rimuginati, contati – tutti, km dopo km, metro dopo metro. E ognuno dei quali ha richiesto di guardarsi intorno più e più volte e di osservare il medesimo dettaglio o il medesimo paesaggio o il medesimo oggetto da decine di prospettive infinitesimalmente, ma continuamente diverse.
Potrei descrivere uno per uno i ciottoli dilavati dalla pioggia battente e poi imbiancati dalla neve degli ultimi mille, infernali metri dell’ascesa a Morinesio. Non c’è vigna di Dolcetto di cui, nei dintorni di Clavesana, non abbia calcolato la pendenza, i ceppi per ettaro, le tonalità cangianti dei verdi primaverili. Ogni chilometro è stato un viaggio.
Mi sono tornati in mente le trasferte a 20 all’ora in Orissa, su un taxi sgangherato che impiegava giorni per fare qualche centinaio di km di buche con un po’ di asfalto nel mezzo. Ho rivisto l’aerobus tra le isole delle Orcadi, con quattro posti più il pilota, passeggeri con le galline nelle scatole e un orario a minuti come fosse stato un tram. Ho ripercorso la salita in vetta ai Pitons di St. Lucia, con la guida che filava in salita nella giungla come fosse stata una pantera e noi dietro ad arrancare. Ho riascoltato le comunicazione via radio dei Comboniani in Karamoja con le quali tutti sentivano tutto, incluse – ogni due giorni, se andava bene – le periperizie mie e del collega sull’auto del flying bishop Kawanuka. Mi è affiorato alla memoria il primo raid sahariano, telefonate dal Cairo con le monetine e poi 15 giorni di silenzio totale, perchè non c’erano internet, facebook, i cellulari e nemmeno i satellitari. Ho risentito l’acqua lungo la schiena della piogge vietnamite e gli aghi di ghiaccio durante le tormente siberiane.
In tutti quei contesti, con spostamenti che duravano più dei soggiorni, l’unica cosa che potevi fare era guardare, pensare, memorizzare, scarabocchiare due appunti illeggibili tra i sobbalzi se la penna te lo permetteva.
Ma alla fine era quello il viaggio e ciò che c’era nel mezzo era la scusa.
Pellegrinaggio vuol dire fretta con gambe che vanno piano, occhi che hanno tempo per guardare, distanze apparentemente risibili che diventano di colpo incolmabili e una motivazione di fondo che ti spinge e ti fa arrivare.
Chiamiamolo come vogliamo: ritorno alle origini? Bagno di umiltà? Recupero del tempo perduto?
Fate vobis.
Il senso dell'”artusiano” lo spiego la prossima volta.