Ha fatto discutere (ad esempio qui) la pubblicità, andata in onda su RadioRai, del vino prodotto dal maestro della Transavanguardia: non si menzionavano infatti né il tipo vino (Brunello), né il territorio (Montalcino), nè il riconoscimento di “miglior rosso del mondo” conferitogli all’International Wine Challenge di Londra. Incontrato a Firenze per una collaborazione con la Misericordia alla costruzione di un villaggio dedicato al recupero dei disabili mentali (qui), Chia ha raccontato la sua verità. Ed anche molto altro.

L’avevano notato in molti qualche settimana fa, compreso il sottoscritto, quello strano spot radiofonico andato in onda sulle reti della Rai. Uno spot nel quale Sandro Chia – artista di fama planetaria e fondatore della Transavanguardia, nonché proprietario del Castello del Romitorio a Montalcino – pubblicizzava il proprio vino dicendo solo che “qui al Castello Romitorio mettiamo l’arte in bottiglia”. Nessuna menzione del fatto che si trattasse di Brunello, però, né che fosse prodotto a Montalcino e nemmeno che recentemente avesse ottenuto il riconoscimento di “miglior rosso del mondo” tra i diecimila degustati all’International Wine Exchange londinese.
Un autentico autogol, pubblicitariamente parlando.
Ma era troppo strano che un personaggio del calibro di Chia e un’agenzia pubblicitaria fossero caduti su una buccia di banana così evidente. E quindi il mondo del vino ha continuato a chiedersi “cosa ci fosse dietro”. Presunzione dell’artista, convinto che evocare il proprio nome bastasse a richiamare nome e tipo del vino? Uno “sgarbo” al territorio, con il rifiuto di citare un luogo che, da solo, basta di solito a fare spot? Oppure una vendetta trasversale, magari verso il Consorzio del Brunello? Insomma se ne sono lette e ascoltate di tutte. Io stesso ero intervenuto escludendo l’idea che si trattasse di un infortunio e rilevando, al tempo stesso, che così com’era la pubblicità perdeva il 90% della sua potenziale efficacia.
L’occasione, ieri, di incontrare Sandro Chia alla presentazione del progetto di collaborazione con la Misericordia di Firenze per la costruzione, in Chianti, di un villaggio destinato al recupero dei disabili mentali (qui), era troppo ghiotta per non chiedergli lumi sulla vicenda. E lui non si è tirato indietro. Anzi.
Allora, com’è andata?
“E’ stato un esperimento, quasi una provocazione. Un metamessaggio. Una sorta di parodia degli spot convenzionali. Non volevo affatto, con quella pubblicità, vendere vino. O venderne di più. Avevo avuto lo spazio radiofonico gratis, con una sorta di scambio merce tra me e il direttore della Sipra, l’agenzia pubblicitaria della Rai. Loro avevano usato il mio Brunello per uno spot con Woody Allen che reclamizzava il consumo del vino a Natale. Volevano comprarmene un po’ per sé. Io gli ho offerto il baratto: bottiglie in cambio di spazio. L’ho fatto apposta, per fare quest’esperimento a favore dell’arte, la mia, e dell’arte applicata, il vino. Ma non quello del Romitorio, che non ha bisogno di reclame. Secondo me il vino è un’appendice dell’arte, una sua espressione. Invece di fare video, come fanno tanti miei colleghi, faccio vino. Da parte mia è un investimento creativo, come quando realizzo un’opera d’arte. Questo è ciò che volevo comunicare attraverso lo spot-non-spot”.
Le reazioni?
Delle più varie. C’è chi l’ha buttata in polemica, come qualche giornalista. Chi si è stizzito. Chi addirittura ha parlato di “censura” ai danni di Montalcino. Chi ci ha visto regolamenti di conti personali.
E invece?
Invece era solo una frase anomala, un po’ così, che mi è venuta di getto perché suonava bene, era eufonica. Qualcuno però ci ha visto malizia, sommo studio. Ora, se questo accade ai produttori, sempre chiusi nelle loro aziende e tendenzialmente gelosi l’un l’altro, è abbastanza normale. Lo è di meno se certi sospetti vengono dalla critica vinicola.
Cosa si aspettava?
Mi aspettavo che fosse preso per quello che era: una provocazione. Del resto anche il collegamento tra lo spot e il premio dell’International Wine Exchange era puramente occasionale, strumentale: considero quel riconoscimento non una gratificazione a me e al Romitorio, ma un ristabilimento della giustizia, un risarcimento al Brunello, alla Toscana e all’Italia. Il fatto di essere scelti tra 10mila vini degustati alla cieca, quindi senza condizionamenti di provenienza e di nazionalità, mi pareva significativo: alla fine dei giochi, il vincitore non è francese o californiano, come accade spesso, ma italiano. E di Montalcino. Dopo tutto quello che è successo, lo trovo un motivo di soddisfazione per tutti.
E allora cosa pensa della critica vinicola italiana?
La trovo, letterariamente parlando, migliore di quella artistica. Nel settore dell’arte i critici hanno perduto le parole, hanno già usato tutti gli aggettivi. Spesso non capiscono le opere e, non sapendole descrivere né interpretare, dicono che “non è arte” oppure che “questo lo saprei fare anch’io”. Così liquidano il problema. Oppure si annodano dialetticamente su se stessi. Nel vino invece i giornalisti ancora si arrovellano nella ricerca dei termini necessari a descrivere le sensazioni date dai vini. Il linguaggio della critica vinicola è ancora in fieri, insomma, non è morto come quello dei critici d’arte. Quella del vino è una critica più viva e, forse, anche più sincera.