Foto di Rossella Pezzino De Geronimo, in mostra a Catania fino al 19 aprile.

Ogni giorno la cronaca mi regala dei flashback dai tanti luoghi che ho visitato. Oggi in India hanno rilasciato Claudio Colangelo, l’italiano rapito dai maoisti con la sua guida. Ero lì nel 2006. E nemmeno allora le occhiate erano troppo rassicuranti. Ecco cosa scrissi.

Ovunque nel mondo esistono confini visibili e confini invisibili. E ambedue trovano ampia cittadinanza in Orissa, specchio di un’India interiore, non ovvia, appartata, più defilata e rurale. Forse – aldilà delle apparenze – persino più contorta e variegata.
Qui quei confini invisibili tracciano innanzitutto le scansioni tribali del mosaico etnico, ora seguendo la curva di fiumi e torrenti, ora snodandosi tra i campi, le risaie, le foreste, le forre, dando ragione di un intreccio antropologico millenario. Quelli visibili sembrano invece più espliciti, anche se spesso a contrassegnarli non sono cartelli e steccati, ma cambi di situazione e bruschi stati di fatto.
Così, quando la candida Ambassado del nostro autista imbocca sbuffando lo stradone in salita attraverso il quale corrono i boundaries tra lo stato dell’Andhra Pradesh e, appunto, quello dell’Orissa, la percezione del trapasso non è tanto affidata allo sgargiante blocco di cemento dipinto che qualche solerte funzionario ha messo lì fare da pietra miliare, ma all’improvviso, brutale restringersi della carreggiata. La quale si trasforma da dignitosa statale in flagrante mulattiera. Quasi a dire: da qui in poi non c’è bisogno di tutto quell’asfalto.
Perché in effetti la geografia delle tribù, che si sovrappone, lievemente come un velo, a quella amministrativa del governo statale e a quella mistica del way of life induista, è modellata più dalla natura che dalla logica. Assecondando un criterio idrografico, così come nella notte dei tempi le genti aborigene risalirono i corsi d’acqua per fuggire in altura, al riparo dall’invasore ariano, così oggi il popolo tribale ridiscende ogni mattina le stesse vie per raggiungere i mercati e, con sussiegoso distacco, prendersi il meglio di quanto portato dalla cultura dominante: il denaro dei commercianti e dei turisti. Nessuna sorpresa, dunque, se le poco sorridenti donne dei malfamati bondo accondiscendono a farsi fotografare dai viandanti, posando pazienti con i loro pesanti anelli di metallo al collo: avranno in testa un’idea ben chiara della tariffa da pretendere per quel servizio. Un’idea che tenderà a dilatarsi se, verso l’ora di pranzo, si sarà sorpresi a fare click quando i giovani della stessa tribù, ebbri di salap o di maculi (rispettivamente, una linfa di palma fermentata e petali di mahua distillati), sono intenti a festeggiare tra loro i buoni profitti del commercio al mercato di Onokudelli, reso fiorente dal capitale che circola grazie alla centrale idroelettrica e alla diga costruiti qui una ventina di anni fa. Arco e frecce in spalla, i baldanzosi guerrieri schiamazzano con fare da guappi al centro di un grande spiazzo, lanciano occhiatacce, si divertono nell’attesa di fare ritorno al villaggio, una decina di km più in là e un migliaio di metri più su, sulla montagna impenetrabile.
Sono sessantadue le tribù ufficialmente censite in Orissa, due delle quali ancora legate a culti animisti preariani. Un arcipelago diffuso e complesso che, nonostante le inevitabili oscillazioni demografiche subite nell’accavallarsi dei secoli, in questa fetta di India profonda si è in qualche modo cristallizzato. A noi le coste e le pianure, a loro – come di diceva la canzone – le montagne e l’entroterra. E’ il mondo frammentato degli adivasi (ovvero il “primo popolo”), gli aborigeni indiani, schegge fossili di un flusso migratorio primitivo fatto di componenti africane, mongole, caucasiche che come un fiume carsico ora si immergono e riaffiorano nei tratti somatici della gente che si incontra nei villaggi, ora si ricompongono nel puzzle etnico che popola la sommità di alte e boscose colline, ora si dissolvono nei mille rivoli di terra battuta che si addentrano nelle foreste. Ognuna ha i suoi usi, le sue architetture, i suoi retaggi, il suo dialetto e a volte anche una propria lingua. Chi è agricoltore, chi è raccoglitore, chi artigiano. Chi semplicemente nomade. Dalle parti di Kenduguda, un gruppo di ragazze si riversa in strada e improvvisa un demsa, festosa danza tribale dedicata al paffuto dio Ganesh, mentre il resto della tribù canta e batte il tempo come in un jump up caraibico. Sulla strada per Bissamcuttack, le mondine di etnia Dongria, abbigliate con il sobrio gonnellonee beige della tradizione, attendono pazienti che l’occhio del passante scorra su di loro, incuranti dei sguardi e dei nostri sorrisi. Forse aspettano che il fidanzato, secondo l’uso antico, venga a “rapirle” per dar modo ai genitori di poterle poi reclamare e intavolare così qualche affare con i futuri consuoceri.
Forse senza saperlo, le tribù dell’Orissa sono attentamente protette dal governo federale. Sono proprietarie della terra che lavorano o su cui vivono, ma per legge non possono venderla. Per evitare lo sradicamento, è necessario infatti che tutto resti com’è, che i confini invisibili restino gli stessi tracciati da millenni di convivenza e di adattamento, percepibili anche quando l’alba fa calare tra le gole una nebbia pesante come piombo fuso, o quando le piogge trasformano le pianure in immensi acquitrini.
Cittadini a tutti gli effetti, e come tali titolari dei diritti civili riconosciuti dallo stato, i membri delle tribù tendono tuttavia a rimanere, prima di ogni altra cosa, esponenti della propria comunità. Le scuole, non a caso, sono allestite nei villaggi ove altrimenti l’elusione dell’obbligo scolastico sarebbe elevatissima, per l’influenza di un sistema chiuso che offre agli appartenenti alla tribù un’educazione, una gerarchia sociale, un insieme di norme cogenti e assorbenti: “Voi vivete nel tempo – ammonisce un anziano dongria accoccolato sotto la veranda di fango della sua casa – mentre noi viviamo nello spazio”. Un principio che la sua tribù, di etnia Gond, applica rigorosamente, difendendo le proprie prerogative attraverso un sistema di scansioni feudali e vassallatiche tra clan che parifica il sangue, le donne e il territorio: tutti e tre gli elementi sono e rimangono tuoi – questo è l’assunto – anche se qualcun altro ne abusa.
La popolazione tribale dell’Orissa ammonta a circa 8 milioni di persone, ovvero a un quarto della popolazione totale dello stato. E’ suddivisa in centinaia di villaggi sparpagliati nell’entroterra, talora inaccessibili. Ma soprattutto è accomunata da una rete di impalpabili relazioni linguistiche, etniche e religiose che rappresenta per gli antropologi una delle sfide più appassionanti del nostro tempo.
La grande minaccia che incombe su queste regioni, impalpabile come i confini, è la politica. Nell’aria non se ne sente ancora l’odore, ma solo il fastidioso ronzio.

LE PRINCIPALI TRIBU’ DELL’ORISSA SUD-OCCIDENTALE

Dharua: una delle più antiche tribù dell’Orissa, presente in vari distretti. Considerati da alcuni studiosi una delle sottotribù dei Gond (il loro nome deriverebbe da dhur, cioè “polvere”, nel senso di “plebei”), da altri un’etnia autonoma, si distinguono per i tratti negroidi. Piuttosto numerosi (oltre 12mila unità) e ben inseriti nella società, hanno perduto tuttavia il prestigio sociale avuto in passato, quando dominavano sulle tribù vassalle.
Gond: è la principale tribù dell’India e, con oltre 7 milioni di soggetti, rappresenta da sola il 10% della popolazione tribale del paese. Diffusi in tutta l’India meridionale e centrale (Gondwana è la “terra dei Gond”). C’è chi, più che una tribù unica, li considera invece un gruppo linguistico che raggruppa più tribù diverse, perché i Gond non hanno un’omogeneità né etnica né culturale.
Bondo: si tratta di una delle tribù più primitive e aggressive, sovente considerate pericolose dalle altre tribù. Vivono tendenzialmente isolati in piccole comunità sulle montagne. Di origine e di lingua austroasiatica (il loro idioma si chiama remo), migrarono migliaia di anni fa nell’area montuosa e selvaggia intorno a Jeypore. Si calcola che siano circa 10mila in tutto.
Birhor: letteralmente “gente (hor) della foresta (bir), è una tribù piuttosto diffusa nel nord dell’India, soprattutto nello stato di Bihar, tra il Gange e il Nepal, ma considerata a rischio in Orissa, dove non si contano più di mille soggetti. Piccoli di statura e scuri di pelle, sono principalmente raccoglitori di cibo o agricoltori/nomadi. Abilissimi nel cacciare le scimmie, sono spesso ingaggiati per abbatterle quando danneggiano i raccolti.
Gadaba: concentrati nei distretti meridionali dell’Orissa, sono considerati tra le tribù più numerose (oltre 70 mila persone), vivaci e “colorate”. Il loro nome è composto da gada (“ruscello”) e ba (“quelli del”), con riferimento alla regione montuosa del Vindhya, ricca di corsi d’acqua, da cui avrebbero preso origine prima di migrare, sospinti dalle invasioni di popoli più forti. Vivono principalmente di agricoltura, caccia e pesca
Mahali: è una delle più piccole tribù dell’Orissa, con una popolazione che non supera le 12mila unità. Originari probabilmente del Bengala e del Bihar, erano conosciuti come lavoratori del bambù. Parlano una loro lingua e si suddividono in cinque sottogruppi con diverse abitudini alimentari e differenti attitudini.