L’1/1 entrano in vigore le nuove norme per la formazione giornalistica. Ma ha senso che debba “formarsi continuamente” chi appartiene a un Ordine in cui si entra senza dover dimostrare di sapere nulla, con docenti e discenti intercambiabili?

Il nastro di Moebius è una figura geometrica particolare, l’unica che abbia un lato solo. L’unica, cioè, in cui si può passare senza soluzione di continuità da un lato all’altro, dal dentro al fuori, senza transitare da uno spigolo, in un moto perpetuo e ininterrotto.
Se le reminiscenze scolastiche non mi ingannano, il nastro di Moebius non è una linea ma un luogo e quindi il suo significato va ben oltre quello del mero simbolo () di “infinito“.
In filosofia si direbbe un diallelo, un circolo vizioso, un ragionamento circolare che, marzullianamente, si fa le domande e si risponde da solo.
In parole povere, qualcosa che se la canta e se la suona.
Ecco cosa mi ha ricordato rileggere (qui) il Regolamento per la formazione professionale continua degli iscritti all’Ordine dei Giornalisti approvato dal Consiglio nazionale il 6/11/2013 e destinato a entrare in vigore il prossimo 1 gennaio, di cui mi ero già abbastanza mordacemente occupato un annetto fa, qui, in un post intitolato “I giornalisti hanno i debiti, ma gli chiedono i crediti
Molto sinteticamente, vi si dice che tutti gli iscritti all’Odg devono “formarsi professionalmente” di continuo, senza interruzione, dandone prova all’Ordine stesso accumulando ogni 3 anni almeno 60 “crediti formativi” (espressione e concetto orribili, portato diretto della demagogia educativa italiana frutto dell’assunzione acritica di altrettanto esecrabili modelli stranieri).
Le attività (copio e incollo da un post su FB del preciso Maurizio Bekar) che porteranno all’acquisizione di tali crediti (anche all’estero) possono essere:
a) frequenza di corsi, seminari e master;
b) partecipazione agli eventi di cui sopra in qualità di relatore;
c) pubblicazione di libri a carattere tecnico-professionale;
d) insegnamento a livello accademico di discipline riguardanti la professione giornalistica;
e) svolgimento di attività formative a distanza (e-learning) accreditate dal CNOG;
f) frequenza di corsi di aggiornamento sull’utilizzo professionale delle nuove tecnologie;
g) frequenza di corsi di formazione organizzati da aziende, istituzioni pubbliche e private e altri soggetti accreditati dal CNOG.
Sorvolo sui dettagli, già espliciti da soli, e dico: ma non è ridicolo che si chieda “formazione continua” agli appartenenti a un ordine (l’unico che io conosca) per entrare nel quale non si deve dimostrare di sapere nulla nè avere titoli di alcun tipo?
Non è grottesco e vagamente comico che quest’ordine affidi il ruolo di formatori ai potenziali ignoranti che lo compongono, i quali in tal modo acquisiranno crediti a loro volta?
E non è incredibile che, per essere validi ai fini dell’accumulo dei “crediti”, i corsi frequentati debbano essere riconosciuti dall’ordine di chi li frequenta, in un esempio perfetto di autoreferenzialità assoluta come, appunto, nel nastro di Moebius?
Qualcuno dirà: se ne è già parlato, sei sempre a criticare, lo prevedono leggi e regolamenti del dio-Ue (una comoda sinecura per ogni sciocchezza, nazionale e comunitaria). E aggiungerà: meglio affidare all’OdG il controllo della formazione che non subire le scelte di altri.
Ora, io sono il primo a essere convinto della bontà dell’esistenza di un ordine dei giornalisti e della sua conseguente funzione di strumento di “autogestione e autocontrollo” della categoria, ma non confondiamo forma e sostanza.
Dettare norme e prevedere la crescita professionale degli iscritti è cosa buona e giusta.
Dare una mano di vernice autoreferenziale per camuffare da virtù praticata l’istituzionalizzazione dell’ignoranza , un’altra.
Ecco, l’ho detto.
Scatenatevi pure.