La cosa che tutti, e non solo i diretti interessati, faticano a capire è che l’emergenza creata dalla minacciata “abolizione” della categoria è anche, anzi è soprattutto, un’imperdibile occasione per adeguare finalmente alla realtà il profilo della professione, dopo decenni di inerzia della politica e delle istituzioni. Lo afferrano i vertici dell’OdG?
Sconcerto, rassegnazione, incredulità. Anche rabbia. La reclamazione, ragionevole ma non sempre realistica, dei diritti quesiti. L’illusione di un attacco mirato. L’accavallarsi dei si dice. Lo scontro delle opinioni.
Confrontarsi con la moltitudine dei colleghi, da quelli aggiornatissimi a quelli in tutt’altro affacendati, sullo tsunami sollevato dall’ipotesi – circolata a più non posso nelle ultime settimane – della cosiddetta “abolizione dei pubblicisti” (virgolette d’obbligo per un’espressione del tutto fuorviante) è oltremodo utile per rendersi conto del modesto livello di consapevolezza che, a qualunque grado gerarchico, serpeggia in una categoria, quella dei giornalisti, oggi sempre più allo sbando.
E quanto detto, ascoltato, intuito e perfino taciuto ieri nel corso della riunione indetta sull’argomento dal Gruppo Stampa Autonomo di Siena (qui), l’ultraquarantennale sodalizio che riunisce oltre cento tra professionisti e pubblicisti senesi, lo dimostra.
Nessuna cartina di tornasole avrebbe potuto esprimere più chiaramente il disagio generale, reso ancora più palpabile da una crisi economica che rischia di spazzare via tutti o quasi, a prescindere dall'”elenco” di appartenenza.
Eppure, se (come, sbagliando, ma qui il discorso dialetticamente ci serve, dicono certi motivatori) in cinese la parola “crisi” si può tradurre anche con “opportunità“, allora pure lo spinoso caso-pubblicisti può essere un’occasione per affrontare e risolvere nodi divenuti cronici nella regolamentazione della professione. E salvarla così da morte sicura.
Ovvero superare finalmente l’obsoletissimo dualismo professionisti/pubblicisti e dotare l’Ordine di un’architettura adeguata al giornalismo del terzo millennio, in cui formazione continua, rispetto della deontologia, acquisizione della professionalità, norme di accesso alla professione siano disciplinate coerentemente ai tempi e ai media di oggi.
Perchè la realtà è questa: nei quasi sessant’anni trascorsi dall’entrata in vigore della legge, la 69 del 1963, che lo regolamenta, il giornalismo non si è solo evoluto, ma si è proprio rivoluzionato. E’ cambiato tutto: numeri, mezzi, modi, tecnologia. Tutto tranne una normativa pensata per un mondo in cui i giornali erano quasi solo di carta, in stragrande maggioranza quotidiani, e i giornalisti erano il stragrande maggioranza dipendenti delle imprese editoriali. Una maggioranza talmente stragrande che appunto fu creata, ad hoc, la figura del “pubblicista”, per dare un inquadramento e circoscrivere entro certe responsabilità l’eccezione rispetto alla regola, ovvero chi “svolge attività giornalistica non occasionale e retribuita, ma che esercita altre professioni o impieghi” (legge 69/1963, art. 1, IV comma).
Non c’erano le radio e le tv (tranne quelle di stato), non c’era internet, non c’erano i blog e i siti, non c’erano le piccole testate. Non c’erano i computer, i cellulari e nemmeno i fax. Non c’erano gli autonomi, i contratti a termine, gli abusivi, che oggi producono il 70% del pubblicato. E il pianeta non era interconnesso e globalizzato.
Insomma era un altro mondo.
Che per la legge, ma solo per la (nostra) legge, è rimasto tale. E la professione ne è prigioniera.
Vedendo da un lato fallire una dopo l’altra tutte le proposte di riforma succedutesi davanti a un Parlamento dimostratosi sempre, va detto, più che tiepido, per non dire disinteressato, nei confronti della questione. E vedendo dall’altro un Ordine che, di fronte all’evolversi del mestiere e delle sue tipologie di esercizio, un po’ per fame di tessere (leggasi quote), un po’ per sinecura, un po’ per la progressiva tendenza buonista dei suoi vertici all’abbassamento delle soglie minime di ingresso, non ha saputo arginare l’esplosione geometrica del numero degli iscritti, che è raddoppiato nell’arco di un quindicennio.
Non solo. Ma, quel che è più grave, proprio a causa dell’impossibilità e dell’incapacità di assecondare la sua struttura normativa e organizzativa alle nuove forme di giornalismo che l’esperienza quotidiana andava creando, ha finito per relegare residualmente tutte le nuove figure nel grande calderone dei pubblicisti. Trasformatosi così, a poco a poco, da nicchia per “specialisti occasionali” a contenitore buono per tutti quelli che altrimenti non si sapeva come catalogare: i freelance, i principianti, i dopolavoristi, i secondolavoristi, gli editorialisti, i miracolati, i giornalisti per caso.
L’aneddotica si spreca, ma non è questo il momento per fare colore.
Così, se davvero si farà realtà, l'”abolizione” dei pubblicisti si trasformerà non solo in un ripulisti sotto certi aspetti opportuno e necessario in una professione divenuta pletorica, ma anche in un azzeramento di speranze, di posti di lavoro, di fonti di reddito, di professionalità, di esperienze straordinarie. Si farà strame di gente capace e spesso capacissima, che solo a causa di norme inadeguate oggi non può accedere al “salotto buono” (o presunto tale) del mestiere. E si creerannno le premesse per la sua implosione, sotto il crollo degll introiti e la perdita irrimediabile di risorse intellettuali preziose.
C’è chi pensa, quorum ego, che tutto ciò accada a sommo scopo e che l’obbiettivo finale sia la cancellazione della categoria per inglobare il florido patrimonio degli enti previdenziali dei giornalisti.
Ma anche – anzi, proprio perchè – se così fosse, a maggior ragione l’Ordine ha ora il dovere di superare le secche e i particolarismi, la concrezione degli interessi e degli schieramenti, e approfittare della delega governativa per porre mano, nei mesi che mancano al fatidico 12 agosto 2012, all’adeguamento della professione, rendendo la categoria inattaccabile sotto ogni profilo. In primis quello del suo fondamentale ruolo in una società libera, moderna e civile.
E’ un appello, forse addirittura una missione di cui ogni singolo giornalista, ogni associazione di categoria, ogni ordine regionale è investito.
Questo è dunque il messaggio da portare alle riunioni che nei prossimi giorni si terranno in tutta Italia, a preparazione del Consiglio Nazionale dell’OdG convocato a Roma dal 17 al 20 gennaio prossimi.
E se chi ci comanda non sarà in grado di dargli un seguito, farà bene a prepararsi ad accogliere presto sotto il portone di casa i giornalisti armati di forconi. Professionisti o pubblicisti che siano.