di STEFANO TESI
In una bella strenna-ricettario del fotogiornalista Guido Cozzi un’indagine per immagini, ma non solo, della “ciccia” toscana. In tutte le salse, i modi e i mestieri, senza retorica e con qualche riflessione.
In Toscana la ciccia è una faccenda parecchio delicata.
Non tanto in termini di body shaming, come oggi potrebbe sembrare andando dietro al politicamente corretto, ma proprio in termini di carne.
La cui regina è ovviamente la bistecca, ossia la cosiddetta fiorentina. Che però non esaurisce affatto il novero delle cicce toscane e dell’arte di cucinarle, argomento su cui spesso i miei conterranei trovano peraltro l’ennesimo terreno ideale per accapigliarsi.
C’è poi, sempre parlando di ciccia, un ulteriore, insidioso e assai dolente punto: viste le premesse, in Toscana è difficile trovare un soggetto più a rischio di retorica e di oleografia della carne. Qui la bistecca sta alla popolarità come Firenze o Venezia all’overtourism. La banalità, a parlarne, è dietro l’angolo. Il risaputo, idem.
Ed ecco che, in questo scenario, un bravo collega fiorentino come Guido Cozzi se ne esce con un volume dal titolo quantomai significativo preso in prestito dai cartelli minacciosi che molti osti appendono nei loro locali per inibire preventivamente richieste di cottura “sconvenienti” da parte di clienti sprovveduti: “Non serviamo fiorentine ben cotte” (Sime Books 2021, 242 pagine, 24€).
In che modo, ci si chiederà, l‘autore è riuscito a sfuggire al pericolo del già visto o sentito che l’oggetto del volume può implicare?
Il segreto (non per me, che conosco bene Guido, ma in generale) è stato nel fatto che Cozzi ha aggirato l’ostacolo facendo semplicemente il proprio mestiere, quello di fotogiornalista.
Ha infatti fotografato ciccia, piatti, persone, animali, attrezzi e situazioni con un realismo vivido che, senza perdere un milligrammo del fascino dell’immagine in sè, non ha mai nulla di finto e sta in equilibrio tra minimalismo e opulenza, cronaca e suggestione.
E soprattutto, non essendo uno specialista del food, ha agito come ogni buon giornalista dovrebbe agire: sapendo di non sapere, ha indagato, chiesto in giro, intervistato chi della materia se ne intende davvero.
Facendo insomma in modo che, alla fine, di ciccia e dintorni non parli lui, ma coloro che (è il caso di dirlo) ne masticano: un’istituzione della macelleria toscana come Stefano Bencistà della celebre Macelleria Falorni (sue anche le 40 ricette di “ciccia doc” in tutte le salse, dalla trippa all’arrosto girato, dalle palle di toro ai fegatelli, che lardellano il libro), norcini, artigiani dei coltelli da carne, cuochi, massaie, allevatori, cacciatori e anche un enologo di grido come Stefano Chioccioli per gli immancabili “abbinamenti” vino-carne.
Il risultato è un volume godibile e persino versatile: la veste grafica è curata, le foto splendide, l’impaginazione vivace, la copertina cartonata e la rilegatura solida paiono ideali sia per resistere alla consultazione “militante” in cucina che per non sfigurare come libro-strenna da libreria o da salotto. Il prezzo, viste la qualità e la corposità generali dell’opera, è assai accessibile. E i contenuti – cosa più importante di tutte – sono corretti, leggibili, senza sbavature, asciutti e puntuali. Nel libro si conversa di ciccia, non si impongono ponderose inchieste o approfondimenti abissali.
Un’ultima nota: “Non serviamo fiorentine ben cotte” non è però nemmeno una sguaiata celebrazione sibaritica, un’esortazione alla crapula. Non mancano le notazioni sociali e le riflessioni sulle radici profonde che storicamente legano un alimento ricco come la ciccia a una terra alla fin fine povera come la Toscana.
Il che non guasta.
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