Soundtrack:”Vagabon Moon” http://www.youtube.com/watch?v=MWZvQ8WEhVI

Willie&Stefano, backstage at Watercolor Cafè, Larchmont (NY), 17/11/09

Willie&Stefano, backstage at Watercolor Cafè, Larchmont (NY), 17/11/09

Un ristorante con trenta persone in tutto (come gli anni che ho atteso questo evento) osti compresi, palco di 3 metri per 2 più un pianoforte, due ore di concerto integralmente acustico. E viaggio di ritorno insieme, parlando della Toscana e della sua futura tournee primaverile in Italia, seduti sullo stesso treno popolare per NYC.
A volte insomma i sogni si avverano. Quando magari non sono più sogni e l’età non è più quella per cullarne. Però si avverano.
E così giovedì scorso mi è capitato di assistere a un concerto di Willie Nile. Come dire: uno degli eroi del songwriting fine ’70. Un grande. Uno dei tanti “nuovi Dylan” mancati (per fortuna). Un artista oscuro, rimasto ai margini del music business dopo le fiammate dei due primi dischi, ma altamente considerato dai colleghi (recente, non a caso, una sua uscita con il Boss) e dagli appassionati. Uno dei tanti passati dal palco del Kenny’s Castaways e degli altri club del Village. L’ennesimo musicista perennemente in sospeso tra contratti discografici che non ci sono e dischi che non hanno il successo che le etichette si attendono. Album intervallati da anni di attese. Centinaia di date. Una sensibilità disincantata, adulta, matura, non scevra tuttavia di sentimento e di feeling, sempre in bilico tra disillusione e missione, tra odori di strada e arpeggi di chitarra, reminiscenze, autocitazioni, nostalgie. Con una punta di autoironia, a volte (“Questa è una canzone scritta quando facevo del folk”, ha sghignazzato prima di attaccare una brillante versione di “Vagabon Moon”, uno dei suoi classici).
Tuttavia, quella a cui ho partecipato non è stata davvero un’esibizione qualunque. E’ stato un miniconcerto per pochi intimi, in un locale minuscolo, per soli fans, con Willie accompagnato solo dal batterista/produttore Frankie Lee al rullante da batteria e spazzole, in puro stile rockabilly. Un’ora di viaggio “upstate” per raggiungere il club in un lontano sobborgo newyorkese, tra le case basse e il flusso dei pendolari da e per Grand Central Station. In vetrina, le locandine di Tom Rush, Janis Ian, Steve Forbert. Non so se mi spiego.
Si cena, poi c’è lo show. Tutti seduti, luci basse, servizio discreto. Birre.
Willie Nile è come sembra. Piccolino, gran ciuffo nero come il colore degli abiti. Io non sto nella pelle, lui non tradisce le mie attese: “Vagabon moon”, “I like the way you say yes”, “Substitute” (un classico degli Who, 1966!), “They’ll build a statue of you”, “Behind the cathedral”, “Sing me a song”, “Champs Elysees”, “Yesterday’s dream” e un po’ di canzoni dal nuovo cd “House of thousand guitars”, poi puntualmente venduto brevi manu a fine show, tra convenevoli e pacche sulle spalle. Io mi sono sentito un po’ fan, lui forse un po’ più giovane mentre rievocavamo certe stagioni del passato, invecchiate con noi ma intramontabili. Perchè ci sono canzoni che non possono scivolare via con il tempo e che non sono una semplice colonna sonora del passato, ma punti fermi su cui gli anni trascorsi hanno, al massimo, l’effetto di qualche granello di polvere. “Yesterday’s dreams”, appunto.
Che Dio salvi Willie Nile e i tanti eroi velati della nostra discoteca.