Il Corriere titola su chi mai avrebbe pensato di trovarsi a campare a 50 anni con 5€ l’ora. Nessuno però si indigna se per il giornalismo autonomo il compenso è di 1,35€. E nessuno che si chieda come e per colpa di chi la professione si è dissolta in una forma masochista di volontariato.
Il discorso è il solito, ricorrente e forse perfino un po’ stucchevole.
Ma appunto per questo motivo è sconcertante, strabiliante, incredibile (aiutatemi a trovare un aggettivo) che nessuno abbia non dico provato a risolvere il nodo, ma almeno ad affrontarlo.
Mi riferisco ovviamente al compenso del lavoro giornalistico autonomo.
Il caso non mi riguarda di persona, poichè ho sempre rifiutato (ritenendoli un hobby costoso che non potevo permettermi) i lavori sottopagati, e non riguarda nemmeno quello che alcuni hanno il coraggio di chiamare sindacato, fenomenale a difendere gli interessi di chi è assunto ma cronicamente, colpevolmente e consapevolmente assente sul versante della libera professione. Non posso fingere però di non vedere cosa mi accade intorno.
E ciò che accade è sempre la stessa cosa: da vent’anni i compensi medi della categoria sono scesi, stagione dopo stagione, sotto una soglia che perfino durante quella precedente pareva impensabile. La remuneratività, cioè il guadagno necessario per vivere del proprio lavoro, è scomparsa da oltre un decennio. Eppure nemmeno questo è bastato ad arrestare la discesa, che si alimenta della complicità dell’Ordine, del masochismo dei colleghi e del benessere di chi, vivendo d’altro, può appunto permettersi di coltivare un hobby costoso come quello del giornalismo.
Dell’avidità degli editori no?, mi chiederete.
E io rispondo: paradossalmente, no.
Gli editori fanno ciò che norme e contratti consentono loro di fare, cioè di pagare poco o nulla gente che fa la coda ed è disposta a tutto pur di scrivere articoli. Perfino a pagare. Già, perchè se scrivo per x euro un articolo che per essere scritto me ne costa x+10, significa che io non solo lavoro in perdita, ma finanzio l’editore che me lo pubblica. O ben che vada, gli faccio una regalia di 10 euro. Del resto, se un fruttivendolo vende la frutta e quello accanto la regala, voi da chi andreste a fare la spesa? Diciamole queste cose, a beneficio di chi finge di non capirle.
In altri termini, questo trend ha ridotto l’informazione da essere già una commodity per il mercato all’ingrosso a essere addirittura una eccedenza da smaltire. E gli smaltimenti, si sa, costano. La tanto vituperata crisi da pandemia ha spesso solo accorciato un’agonia professionale ed economica cominciata, nell’indifferenza generale, alla fine degli anni ’90.
A dar conto del paradosso si chiamino i responsabili, ovvero quelli indicati sopra.
A questo punto c’è chi si domanderà dove stia la novità.
Ebbene, la novità sta in questo: che ieri sul Corriere on line mi cade l’occhio su un titolo: “Mai avrei immaginato di ricevere 5,40 euro lordi l’ora a 45 anni“.
Si parla di lavoro, di “working poor“, cioè di gente di mezza età che, sepolte le giovanili speranze, campa in bilico sulla soglia della sopravvivenza, si arrangia, svende la propria professionalità o la abbandona, pressata dalla necessità di tirare avanti, che comunque è sempre meglio che morire di fame.
Rimando al link per gli approfondimenti del caso. Ma è evidente che, se merita un articolo su un giornale importante, si tratta di una notizia di rilievo. Come in effetti è.
Ed eccoci alla capriola, al rovesciamento del mondo: perchè i 5,40 euro lordi l’ora che il Corriere e la Cgil denunciano come indecente sono la stessa cifra, per non dire di più, di quanto oggi viene mediamente pagato, per un articolo in cronaca su un quotidiano, un giornalista esterno al quale, per scrivere quel pezzo, di ore ce ne sono volute – tra ricerche, verifiche, spostamenti, stesura – quattro? In sostanza, ha lavorato per 1,35 euro lordi l’ora.
Ciononostante, salvo che nelle geremiadi tra colleghi, non ho mai visto un organo di informazione dedicare seriamente una riga a questo argomento scottante. Scottante per tutti considerato che, almeno a parole, il giornalismo sarebbe il pretoriano della democrazia e bla bla bla.
Forse sarebbe ora che qualcuno ci facesse caso.
Concludo con due chiose.
Primo: si auspica che i rinnovati vertici dell’Odg riprendano in mano la questione dell’equo compenso, sebbene ormai simbolica, con la determinazione e l’onestà morale mancate alla gestione precedente, sotto l’omissiva regia del sedicente sindacato.
Secondo: prendendo a paradigma i citati 5,40 euro ad articolo, si sappia che della somma il giornalista versa all’istituto di previdenza, l’Inpgi2, il 14%. Ovvero 0,756 millesimi di euro. Supponendo che uno stakanovista della penna possa scrivere due articoli al giorno per 365 giorni all’anno, quindi feste comprese, l’accantonamento sarà di 551,88 euro l’anno, ossia 45,99 al mese. Domanda: a che pensione pensate che potrà aspirare a fine carriera costui, sempre ammesso che ci arrivi? Credo sarebbe ora che la politica cominciasse a preoccuparsi anche di questa della questione, visto che all’Inpgi2 bisogna mettere mano, ma sarà tutto inutile senza un profondo ripensamento del settore.